La notte scorsa è stato ucciso Brandon Bernard. Aveva quarant’anni ed era stato condannato a morte nel 1999, quando era appena maggiorenne. L’amministrazione Trump, oltre a quest’ultima esecuzione in Indiana, ne ha ancora quattro da concludere prima dell’insediamento di Biden. Questo renderà la sua presidenza quella con più condanne a morte dell’ultimo secolo.

In Italia, nonostante la pena di morte sia stata abolita dal codice penale già nel 1889 – fatta eccezione per il periodo fascista – gli ultimi dati Censis sulla situazione sociale riportano un inquietante aumento del numero dei cittadini favorevoli alle esecuzioni: il 43,7% degli italiani.

Per molti la motivazione è quella del deterrente. La paura di morire inibirebbe le azioni violente. È davvero così? Innanzitutto, non tutti gli omicidi sono premeditati. Se non lo sono, è chiaro che l’adrenalina del momento o i disturbi che possono essere coinvolti non prendono certo in considerazione il quadro giuridico a cui vanno incontro. Ma ammettiamo che il crimine sia calcolato: la pena di morte non riduce le statistiche sui crimini gravi, anzi, né conduce ad alcun beneficio in termini di pubblica sicurezza, come riferisce Amnesty International nell’ultimo report sul tema. Lo Stato che la applica contribuisce a creare un clima in cui la violenza e la paura sono legittimate; lo dimostra il fatto che il tasso di omicidi è sempre in crescita dopo la notizia di una esecuzione, così come accade dopo stragi o atti terroristici. Dunque, il presunto deterrente… semplicemente non lo è.

Un altro fronte è ancora più cieco, riduce tutta la questione etica a una economica: i criminali è meglio ucciderli che mantenerli, non se lo meritano. Sollevo prima di tutto un nesso: a livello internazionale proteggiamo la vita come diritto umano. Esso si applica indistintamente, al di là della bontà o malignità di qualsiasi persona. In che modo superiamo il contrasto tra un presunto tetto di spesa e il rispetto del diritto alla vita? (O ci ricordiamo di chiamarlo in causa solo quando si tratta di impedire l’esercizio del diritto all’aborto?)

Chiusa questa parentesi che ha dell’assurdo, il dato che conta a livello pratico è un altro: una condanna a morte costa più di una normale detenzione. Prendo come esempio un paese che riteniamo democratico: gli Stati Uniti. Innanzitutto, i processi in cui è richiesta l’esecuzione durano molto più a lungo, vista la delicatezza della sentenza. Dunque, più denaro per le investigazioni e più denaro per la Corte. Si aggiungono i costi delle richieste di appello e quelli per mantenere attive le sezioni carcerarie “braccio della morte” in cui un numero esiguo di detenuti viene trattenuto anche per dieci anni e oltre, dovendo presenziare periodicamente in aula. I detenuti nel braccio della morte sono sistemati separatamente perché ritenuti più pericolosi degli altri, ma nella maggior parte dei casi non è affatto così.

Insomma, facendo due conti, vari studi hanno dimostrato che il costo arriva a più di un milione di dollari in più – fino a due – per detenuto, rispetto a una reclusione standard. E quindi anche sul fronte convenienza (che termine orribile, neanche stessimo parlando dei saldi per comparsi il divano), non ci siamo.

L’unica cosa su cui si riesce a risparmiare – e che unisce Stati democratici e non – è il costo degli avvocati difensori. In molti paesi i processi sono spesso sommari e pilotati e, anche dove non è così, per la difesa vengono nominati avvocati d’ufficio, con un budget ridicolo e privi delle competenze adatte. Tutta un’altra musica se i criminali sono ricchi e possono permettersi di pagare team specializzati. Questo fatto genera disuguaglianze di processo tra persone benestanti e non, che si specchia nella più ampia frattura tra bianchi e BIPOC (Black, Indigenous and People Of Color). In più, soprattutto se è presente una giuria popolare, attualmente è molto più facile che una persona nera venga condannata per la morte di una bianca che viceversa. Oltre che inefficace, perciò, la pena di morte è pure razzista.

E in ultimo la motivazione più intuitiva di tutte: qual è la differenza tra una persona che uccide e uno Stato che uccide in modo premeditato? Siamo entrambi assassini. E se da un lato sappiamo di doverlo punire, perché dall’altro scegliamo di imitarlo?

Se ancora non vi ho convinto, mi prendo ancora due righe: secondo uno studio di biostatistica pubblicato qualche anno fa dalla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences, si stima che quattro condannati a morte su cento siano innocenti. Cioè li hanno ammazzati per sbaglio. Ops, troppo tardi. Chi ha il coraggio di prendersi la colpa?

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