Nella primavera dell’anno scorso si erano arrampicati in cima al tetto dell’azienda, vivendo lì per due settimane. A novembre, invece, erano saliti sulle pensiline e si erano incatenati ai nastri di trasporto, per protestare contro il mancato reintegro da parte dell’azienda nonostante una sentenza della Corte d’appello di Bologna. Oggi l’ultimo capitolo della vicenda del gruppo di operai della logistica della Gls di Piacenza, licenziati a gennaio del 2019 dopo aver partecipato ad alcuni scioperi. Il 5 dicembre il giudice del lavoro del tribunale di Piacenza ha accolto il ricorso del sindacato Usb, riconoscendo l’avvenuto trasferimento d’azienda tra Seam (la società in subappalto che aveva licenziato i facchini) e Natana, la committente, a sua volta appaltatrice del servizio di carico e scarico nel magazzino Gls. E ordinando a quest’ultima di riammettere in servizio i licenziati “con mansioni, inquadramento, orario e luogo di lavoro identici a quelli avuti alle dipendenze di Seam”, in virtù della decisione della Corte d’appello di Bologna, che il 28 ottobre scorso aveva dichiarato illegittimi i provvedimenti disciplinari nei loro confronti. Così, lunedì sera, dieci dei 33 lavoratori sono potuti rientrare nello stabilimento dopo quasi due anni. Altri sei hanno rinunciato alla reintegrazione in cambio di un indennizzo, mentre tutti i restanti – assunti dopo l’entrata in vigore del Jobs Act – attendono la decisione di secondo grado, con la prima udienza fissata per il 17 dicembre.

Per più di un mese Natana si è rifiutata di applicare la sentenza di Bologna, sostenendo che obbligata al reintegro fosse soltanto la subappaltatrice. La quale, però, nel frattempo era stata messa in liquidazione e ridotta a un guscio vuoto, perché a maggio 2019 la stessa Natana aveva internalizzato il subappalto assumendo tutti i lavoratori Seam. Un meccanismo – che Usb definisce un “gioco delle tre carte” – a cui i facchini hanno reagito con tre successivi blitz nell’hub della Gls, incatenandosi alle rulliere e presidiando i varchi d’accesso. Mentre il sindacato, tramite gli avvocati Jacobo Sanchez Codoni e Matteo Vricella, depositava al tribunale di Piacenza un ricorso urgente per costringere il datore di lavoro a obbedire alle disposizioni dei giudici. “Natana, prima committente di Seam, ha internalizzato tutte le attività prima appaltate e ne ha assunto tutti i dipendenti”, scrivevano i legali, chiedendo in via cautelare “di accertare l’avvenuto trasferimento d’azienda, dunque l’efficacia della sentenza della Corte di Appello di Bologna verso Natana, con relativa condanna di quest’ultima a tutto quanto già oggetto di condanna nei confronti di Seam”.

Si chiude così, almeno per ora, la vicenda di una parte dei facchini (quasi tutti disoccupati da due anni, con famiglia a carico) che nella primavera 2019 attirarono l’attenzione dei media occupando per due settimane di fila il tetto dello stabilimento di Piacenza. “Non è mai facile, in Italia, arrivare a ottenere una reintegrazione – commenta al Fatto.it Riadh Zaghdane dell’esecutivo nazionale Usb – e lo sarà sempre meno in futuro, con l’aumentare dei rapporti regolati dal Jobs Act. In questo caso la decisione era prevedibile, perché il comportamento dell’azienda è stato sfacciato. Ma in altre situazioni dimostrare i trucchi è più difficile, per questo chiediamo una legge seria che intervenga anche sui committenti come Gls, che troppo spesso se ne lavano le mani. Non si può dover lottare anche per far rispettare una sentenza”. Sentenza che, aggiunge, “ha riaffermato in modo importante il diritto di sciopero e quel che resta dell’articolo 18”.

Già, perché alla base della reintegrazione c’è il riconoscimento della legittimità degli scioperi messi in campo dai facchini Usb, indetti a seguito di uno scontro con un collega iscritto al Si.Cobas. Astensioni dal lavoro che invece l’azienda ritiene non qualificabili come sciopero, perciò ingiustificate e passibili di licenziamento. Anche la sentenza di primo grado aveva derubricato a una “guerra tra bande” tra sigle rivali. E nei giorni scorsi la difesa di Seam ha depositato alla Corte d’appello di Bologna una richiesta di revoca della decisione, basata su investigazioni difensive svolte dall’avvocato Alfredo Zampogna – storico legale di Gls – da cui risulterebbe che l’aggressore dei facchini Usb non avesse con sé un tirapugni. Circostanza, scrivono i legali, fondamentale perché “il possesso e utilizzo del tirapugni (…) costituisce l’elemento decisivo che ha indotto la Corte di Appello a ritenere l’esistenza dell’interesse collettivo alla sicurezza sul posto di lavoro e all’incolumità dei lavoratori”, tutelabile tramite sciopero. Perciò “le presunte giornate di sciopero” sarebbero state in realtà “una guerra tra gruppi etnici, rispetto ai quali l’appartenenza all’una o altra sigla era elemento del tutto irrilevante”, e il richiamo alla sicurezza “una mera scusa”. L’udienza per la discussione del ricorso è fissata al 14 gennaio.

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