La scadenza è lunedì 30 novembre. Come previsto dall’accordo tra ArcelorMittal e gli ex commissari dell’Ilva, in assenza di un nuovo contratto di investimento il gruppo francoindiano avrebbe potuto esercitare il diritto di recesso pagando una penale di 500 milioni. Ma non andrà così: come anticipato nei giorni scorsi, il governo intende rientrare in forze nel capitale del siderurgico tarantino in amministrazione straordinaria dal 2012 e dato in affitto solo due anni fa. Lo farà attraverso Invitalia, braccio del ministero dell’Economia guidato dallo stesso Domenico Arcuri nel frattempo impegnato su molti altri fronti nelle vesti di commissario straordinario all’emergenza Covid: l’agenzia per l’attrazione degli investimenti acquisirà il 50% con l’obiettivo di avere un ruolo “di orientamento e gestione anche delle scelte industriali del gruppo”, come emerso durante l’ultimo incontro con i sindacati. Che sono stati convocati per lunedì alle 12 dal ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli.

Lo Stato metterà sul piatto 400-450 milioni di euro: per la produzione di acciaio è prevista la progressiva salita fino alla soglia delle 8 milioni di tonnellate annue, come da accordi di marzo. Quest’anno l’acciaieria pugliese dovrebbe produrre 3,2 milioni di tonnellate in tutto: il minimo storico. Nel nuovo piano industriale l’obiettivo, sulla carta, è l’impiego della totalità della forza lavoro. Oggi gli operai del gruppo sono 10.700, di cui 8.200 a Taranto, dove 3.300 sono ora in cassa integrazione e il 16 novembre sono scattate altre 6 settimane di cassa Covid. Il timore dei sindacati è di dover accettare un piano preconfezionato, con tempi per la piena occupazione spostati al 2025 e un rinnovo a oltranza della cig.

L’annuncio dell’accordo dovrebbe togliere il velo anche su altri aspetti. La governance, ad esempio, sarà inizialmente paritaria con presidente e amministratore delegato espressi l’uno da Invitalia e l’altro da Mittal. Ma bisognerà chiarire quali sono le deleghe che verranno attribuite. Ci sono poi da indicare gli investimenti previsti, un tema sul quale i lavoratori chiedono chiarezza per comprendere la credibilità del progetto.

Dal capoluogo pugliese il sindaco Rinaldo Melucci lamenta di non essere stato informato di nulla. “Finché sento parlare, tutto nella stessa equazione, di rifacimento di altiforni, di piena occupazione dentro allo stabilimento siderurgico, di piani sconosciuti del Governo e persino di sostenibilità ambientale col carbone, mi sento soltanto preso in giro, e con me sicuramente la maggioranza dei tarantini”. Secondo lui l’unica strada è “la valutazione del danno sanitario, la completa decarbonizzazione ovvero la chiusura dell’area a caldo, la riqualificazione o l’accompagnamento degli esuberi, le bonifiche, persino l’arretramento fisico dello stabilimento siderurgico dalla città e dal porto”. Cosa “vogliamo fare – si chiede il sindaco – del Recovery Plan o del Piano Sud altrimenti in questo Paese? Tutto il resto è irricevibile per Taranto e ci costringerà ad una resistenza strenua, in ogni sede istituzionale e non. So per certo che questa sia la posizione anche della Provincia di Taranto e della Regione Puglia“.

Posizione simile a quella del movimento ambientalista “Giustizia per Taranto” che chiede “che Regione, Provincia, Comune e parlamentari tarantini si oppongano, con decisione e senza più ambiguità, a questi intendimenti. Senza più timori reverenziali rispetto ai diktat del Pd nazionale, mosso dagli interessi bancari che ci sono dietro a questa scellerata operazione”. Secondo l’associazione, “lo Stato italiano ha assoluto bisogno di ricavare soldi da un partner privato che ne compri le quote per continuare a produrre. Diversamente non ci sarebbe il modo di rifondere le banche dei soldi investiti. E’ questo il motivo per cui la chiusura della fabbrica ed il risanamento del territorio non vengono neppure presi in considerazione, nonostante non ci sia più neanche un motivo per salvarla: non solo motivi ambientali e sanitari, ma anche, com’è ormai chiaro, economici e occupazionali”. Produrre “8 milioni di tonnellate all’anno di acciaio – conclude Giustizia per Taranto – significherà produrre più di quanto il mercato abbisogna, motivo per cui questo nuovo accordo costituirà una nuova bolla destinata a scoppiare nei prossimi anni, allungando l’agonia del nostro territorio”.

Per il segretario generale della Fim Cisl, Roberto Benaglia, “l’accordo finanziario che prevede l’ingresso per ora in quota paritaria e per il 2022 in quota maggioritaria dello Stato italiano è una base utile per dare continuità produttiva, mantenere impegnato il gruppo ArcelorMittal sulle strategie industriali. Ma non dimentichiamoci – prosegue – che siamo in questo momento nel peggiore anno di gestione del gruppo nella sua storia e per garantire l’occupazione non basteranno impegni generici“. Per la Fim Cisl garantire l’occupazione sarà la priorità “e questa si può realizzare con investimenti industriali e commerciali e non puntando sulla cassa integrazione”. L’ incontro con Patuanelli “giunge in ritardo ma ci presenteremo con buona volontà, proprio per chiare gli impegni decisivi su investimenti e occupazione”.

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