Lo Stato ha intenzione di entrare nell’ex Ilva con una quota che le permetta di partecipare alla governance. In altre parole, le stesse usate dal ministro dello Sviluppo Stefano Patuanelli, “non sarà socio di minoranza”. È l’unica novità emersa dall’incontro al Mise tra lo stesso Patuanelli, i ministri Roberto Gualtieri e Nunzia Catalfo, l’ad di Invitalia Domenico Arcuri e i sindacati. Un vertice che i rappresentanti dei lavoratori ritengono ancora “fumoso”, ma durante il quale – come ha riferito per prima la segretaria della Fiom Francesca Re David – “è stato annunciato che lo Stato non entrerà in minoranza nella nuova compagine societaria che si sta definendo”. L’ipotesi, ha spiegato la segretaria dei metalmeccanici Cgil, che si sta facendo strada “è di un accordo di co-investimento con l’ingresso di Invitalia non solo come soggetto azionario ma di orientamento e gestione anche delle scelte industriali del gruppo”. Ma Re David chiede un “confronto continuo”.

“Non siamo più in una fase interlocutoria”, aveva del resto riferito Patuanelli, dando sostanza alle affermazioni di Arcuri: “Si prevede la progressiva salita degli impianti produttivi fino alla soglia delle 8 milioni di tonnellate annue e quindi l’impiego della totalità della forza lavoro. Attualmente l’azienda produce tra 3 e 4 milioni di tonnellate l’anno”. Così, secondo quanto riportato da fonti vicine al dossier, Arcuri ha dettagliato: “È previsto un ingresso del socio pubblico da subito, ed è previsto un finale assetto azionario in cui la presenza della parte pubblica sarà ancora più rilevante rispetto all’inizio. È prevista la condivisione della governance dell’azienda dal primo momento in cui il socio pubblico entra a far parte”. L’accordo sindacale – ha ricordato Arcuri – è “condizione essenziale” e per questo “c’è una forte necessità di avviare un confronto che porti, se possibile, a un percorso progressivamente condiviso”. Gli obiettivi del pubblico, ha specificato Arcuri, sono “l’implementazione puntuale del piano, l’attenzione alla innovazione e alla dimensione produttiva, la definizione di una parte importante di un piano nazionale per l’acciaio”.

Parole che, visto il tempo rimasto a disposizione fino al giorno in cui (30 novembre, ndr) ArcelorMittal potrà abbandonare Taranto riconsegnando le chiave del siderurgico e un assegno da 500 milioni di euro, lasciano intravedere ai sindacati la possibilità che ora gli incontri si facciano più serrati e vengano calendarizzati con frequenza maggiore per definire la transizione verso la “nuova” Ilva. “Siamo in un punto avanzato della trattativa, abbiamo dead line 30 novembre. Il piano elaborato a marzo verrà attuato, modifiche non rilevanti. Prevediamo decarbonizzazione della produzione, forte investimento nell’implementazione altoforno 5 e forni elettrici”. Troppo poco, secondo il leader della Fim-Cisl Roberto Benaglia: “A 17 giorni dalla scadenza del contratto, non possiamo avere questo livello di incertezza. Resta troppo oscuro il piano industriale, come pure gli impegni su investimenti e l’occupazione. In un momento così delicato e dopo mesi di sospensione e incertezza come quella che stanno vivendo i lavoratori, non possiamo pensare che si possa risolvere il tutto con impegni generici da oggi al 2025. C’è la necessità che il sindacato venga coinvolto non formalmente ma concretamente nella trattativa, non possiamo perdere ulteriore tempo”, dice.

Sulla stessa linea anche Rocco Palombella, segretario della Uilm: “C’è bisogno di un confronto continuo, a partire da quello fissato nella prossima settimana, per arrivare prima della scadenza con un quadro di certezza”. Secondo il leader sindacale: “Siamo ancora di fronte a ipotetici scenari futuri sulla più grande acciaieria europea. Non possiamo prendere atto di accordi finanziari e commerciali a cose fatte, perché si rischierebbe di rendere un eventuale confronto sindacale inutile”. Palombella chiede di conoscere “effettivamente quali sono le condizioni e i tempi, previsti dall’ipotetico accordo, perché non sono ininfluenti. La situazione di drammaticità che si vive negli stabilimenti non è più sopportabile”.

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