di Marco Marmeggi

Quando cammina per le strade anche i cani hanno paura. Barcolla, dondola, sembra avvitarsi, invece tira dritto e ti punta. E’ un apolide, un incontenibile, un comandante fatto e finito, inadatto per natura al compromesso. Porta una campanella all’orecchio destro ed i tentacoli astratti di un tatuaggio escono dalla camicia a mezze maniche, avvinghiando l’avambraccio e incendiando il polso.

Alessio Bernabò afferra il pesce che ha pescato alla traina mentre parliamo. E’ una bella giornata. Fa caldo e neanche lui se lo aspettava. L’occhio del pesce ha un sussulto, lampi blu e viola si mischiano con il nero dell’iride. Tiene la testa sulle ginocchia, apre le branchie come un ventaglio e versa dentro il rum che si è fatto portare. La coda sbatte un paio di volte e il resto del corpo si calma.

Festa finita.

Nasce il 27 settembre del 1975 ed è affetto da esiti di poliomielite causati dal vaccino che gli viene somministrato a sei mesi. L’arto inferiore sinistro è più corto, non ha massa muscolare ed i nervi arrivano fino alla coscia perdendo vita sul rettilineo finale che tira dritto fino alla caviglia.

A sei anni è sul Garda, appiccicato al vetro della finestra della clinica dove gli hanno operato la gamba per la seconda volta. Il tentativo è quello di allungare il tendine di Achille, di permettere al piede sinistro di stare al passo veloce del fratello destro. Al di là del vetro, i cipressi corrono fino al lago, c’è il sole e pare di vedere un pezzo di mare infilarsi tra le montagne. Si corre la 100 miglia del Garda, la regata in acque interne più lunga d’Europa. Decine di vele bianche giocano su confini immaginari che si perdono dietro gli olivi, luccicano al vento e sbandano di lato.

Dell’infanzia ricorda i vagoni letto dei viaggi in treno da Cosenza a Bologna per le visite mediche, non può dimenticare le scarpe ortopediche di pelle nera, rinforzate e rialzate, terribili e bruttissime. Per questo, quando può, sta scalzo, “perché camminare a piedi nudi è un’enorme leggerezza”.

Ha sempre provato a fare quello che fanno tutti, non ce lo vedo proprio a tirarsi indietro. Giocava a calcio con i compagni del quartiere ovunque fosse possibile prendere posto ad armi pari. “I ragazzi erano anche cattivi, ma faceva parte del gioco. Stavo in porta perché ognuno deve avere le sue competenze, gli avversari non mi hanno mai fatto uno sconto e, pensandoci ora, li abbraccerei”.

Il rapporto con la disabilità entra in crisi ogni volta che viene a contatto con l’istituzione. Tra gli anni 80 e 90 non esistono molte offerte sportive per la disabilità, la parola integrazione è ancora lontana, l’inclusione un miraggio. Gioca a rugby fino a diciotto anni, entra nella squadra e si presenta davanti al dottore per la visita agonistica. Gli dice la stessa cosa che gli insegnanti di ginnastica gli ripetevano alla vigilia delle corse campestri, mi spiace, ma non puoi giocare. Nel mondo delle regole il perimetro delle possibilità si stringe.

Sua madre lo vorrebbe in giacca e cravatta, seduto ad una scrivania, gli ripete sempre che deve studiare, ma Alessio si ricorda che a cinque anni si arrampicava sugli alberi di fichi e che, da là su, il mondo gli sembrava troppo interessante per scendere e guardarlo da una sedia. Studia ingegneria a Napoli finché ce la fa, prova oceanografia, ma poi decide di lasciare l’università e girare il mondo. Legge Pirsig, Kerouac, Maltese, lavora come operaio di cantiere, si tinge le dita di viola durante la vendemmia, pulisce le cisterne di galleggiamento al porto e prova a giocare con la chimica dei cocktail nei locali di riviera.

E’ ancora un ragazzo quando nasce il primo figlio. Lo chiama come la stella che compare a luglio e con cui gli egizi facevano coincidere la piena del Nilo. Si ferma a San Lucido, in provincia di Cosenza e fa l’unico lavoro che, alla fine, gli permetterà di “stare a mare”. Diventa un pescatore e impara i primi rudimenti dell’acqua salata, a caccia di sarde e acciughe dalla notte all’alba. Se gli chiedo un’immagine, dice che sembrava di portare in mezzo al mare una discoteca per i pesci, una specie di afterhours in cui le pance argentate ballavano dentro la rete.

Il mondo della vela e della navigazione prende forma così, le barche che da piccolo aveva intravisto dai vetri di una finestra di ospedale cominciano a fluttuare sotto i suoi piedi. Nel 2010 riesce a metter le mani su un cutter in alluminio di dodici metri, disegnato da Carlo Sciarrelli nel 1976. Si chiama Aton, come il Dio del sole. “Volevo andare verso Occidente, ma sono finito a Oriente”, mi racconta. Le linee della vita, a volte, invertono le rotte anche ai navigatori più esperti. Gira un documentario che non è mai stato pubblicato, ma che racconta il suo lungo viaggio che da Livorno arriva al Danubio e lo risale fino a Tulcea. Istanbul la passa a vela, dopo una notte agitata nel Mar di Marmara, l’alba sui minareti all’orizzonte è il coronamento di un sogno. Navigare rende l’uomo un essere libero.

E’ uno dei fondatori dell’associazione Diversamente Marinai. “Siamo stati e siamo avanti”, riconosce senza peli sulla lingua né false modestie. Nel 2018 crea il gruppo sportivo Crossing Routes – a different sailing team con il quale si presenta sui campi delle regate d’altura più importanti del Mediterraneo. E’ un progetto ambizioso che vola sopra il tempo, anticipando un pezzo di storia. Si tratta di un equipaggio composto da disabili e normodotati in grado di far planare una barca da corsa sulle onde del Mediterraneo.

Alessio cita Damien Seguin, classe 1979, due volte campione del mondo dei giochi paralimpici, finito sugli Imoca 60 a competere, con una mano in meno degli altri, nel Vendee Globe 2020 che si disputa proprio in questi giorni, il più affascinante e veloce giro del mondo in solitario.

Vorrebbe fare come lui. I progetti futuri devono sempre guardare più lontano delle nostre possibilità, solo così possiamo raggiungerli. Con Vaquita, il Class 40 del progetto Crossing Routes, Alessio Bernabò sogna l’oceano. “Vorrei fare la regata transatlantica Jaques Vabre, ed essere il primo atleta disabile italiano ad attraversare l’oceano in una regata di 5400 miglia nautiche che dalla Francia scende fino al Brasile”.

Si guarda il tatuaggio che sulla gamba buona disegna la classica ancora da marinaio. Sotto ha fatto scrivere “solo un briciolo di fortuna”, il titolo di un racconto di Joseph Conrad. “Ecco – mi fa – Nella vita, a volte, basta soltanto un pezzo minuscolo di fortuna per realizzare i propri sogni”.

Scendo sotto coperta per il mio turno di riposo e lo lascio in pozzetto con il cappuccio della cerata tirato sugli occhi. C’è uno spicchio di luna che balla nella nostra scia. Mi viene in mente il capitano Achab di Moby Dick, a bordo del Pequod in una notte australe. Penso che vedendo Alessio, Melville lo riscriverebbe il suo comandante, gli farebbe abbandonare la caccia e riporre l’arpione, affinché la Balena Bianca possa perdonarlo e attraversare insieme a lui l’oceano sconfinato.

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