Emamul Molla e Shipon Fokir sono due dei 150 ex-dipendenti della GS Painting, azienda attiva in subappalto nei principali cantieri navali destinati alla costruzione di yacht e mega-yacht di lusso tra Liguria e Toscana, al centro di un’inchiesta della Guardia di Finanza che ha portato a 8 arresti tra La Spezia e Ancona. “Apparentemente ci facevano firmare regolari contratti promettendo una paga oraria di 10 euro per lavori pesanti di stuccatura, saldatura, carteggiatura e verniciatura. La realtà era fatta di sfruttamento, maltrattamenti e oltre metà della paga da restituire in contanti. In tasca ci restavano dai 4 ai 5 euro all’ora”.

Sono stati necessari mesi di indagini per smantellare il sistema di caporalato che operava nel sistema dei subappalti dei cantieri navali più esclusivi, ma oggi le parole dei due operai bengalesi trovano conferma nell’inchiesta condotta dalla Finanza di La Spezia. Il proprietario della società con sede ad Ancona, Bin Rauf Mahmud, originario del Bangladesh come la maggior parte dei dipendenti, viene descritto dall’ordinanza di custodia cautelare del Gip del Tribunale della Spezia come un uomo capace di costringere gli operai “approfittando del loro stato di bisogno”, a “condizioni di lavoro subumane”, “turni massacranti, paghe ben al di sotto di quelle previste dai Contratto nazionale di categoria” e vessazioni di ogni genere: “Minacce, violenze fisiche e psicologiche, intimidazioni e ricatti, esercitate direttamente o tramite un manipolo di fidati connazionali, tra i quali il fratello e il nipote”.

Unico italiano tra gli otto arrestati nell’ambito dell’operazione “Dura Labor” un consulente del lavoro anconetano che non risulta iscritto all’ordine, incaricato di elaborare le buste paga e garantire la patina di legalità necessaria per aggiudicarsi le commesse più prestigiose. Gli operai, ridotti stando a quanto emerso dall’indagine a una condizione di semi-schiavitù, arrivavano a lavorare 14 ore al giorno senza permessi o riposo, sorvegliati a vista dai caporali e spesso minacciati, offesi e percossi.
Tutto questo avveniva nei cantieri dell’eccellenza degli yacht e mega-yacht di lusso ‘made in Italy’, eppure allo stato attuale i proprietari di Sanlorenzo, Baglietto e dei Nuovi Cantieri Apuani, sono ritenute estranee ai fatti, a loro volta ignare e vittime (in termini di danno all’immagine) del sistema di caporalato che si celava dietro a regolari contratti di appalto.

Il proprietario della GS Painting viene descritto nelle carte del Tribunale come un “personaggio dispotico e autoritario”, dotato di una “notevole forza intimidatoria” nei confronti delle maestranze dalle quali è “estremamente temuto”. Eppure, Bin Rauf Mahmud è un esponente conosciuto nella comunità bengalese della Spezia, a marzo si prodigava nella distribuzione di tute protettive e guanti monouso alla Croce Rossa di Ameglia, e veniva visto come una persona che, comunque vada, “poteva dare una mano” a chi aveva bisogno di documenti e lavoro. Anche questo ‘status’, rafforzato da un nutrito gruppo di sodali, portavano all’atteggiamento “remissivo e di vera e propria sudditanza” dei dipendenti “soprattutto in ragione del costante timore di essere licenziati e, quindi, perdere l’unica fonte di sostentamento, nonché la possibilità di rinnovare il permesso di soggiorno, vincolato al contratto di lavoro dalla Bossi-Fini”.

Un’atteggiamento di prevaricazione e ricatto che sembra colpire esclusivamente i dipendenti stranieri, dalle intercettazioni emerge infatti come con i (pochi) dipendenti italiani venissero rispettate le condizioni contrattuali “per non avere problemi”. La ditta operava attraverso diversi ‘caporali’, persone di fiducia del boss che facevano da intermediari tra lui e i lavoratori. Tra le telefonate intercettate anche i dialoghi (ulteriormente gravi in tempi di Covid) nei quali i caporali intimavano a lavoratori malati o infortunati di scegliere tra recarsi comunque al lavoro o dimettersi, minacciando botte e ritorsioni in caso di denunce o dichiarazioni al Pronto Soccorso.
Dal controllo dei flussi sui conti correnti si è potuto appurare come i dipendenti, una volta ricevuto il compenso, ritiravano circa la metà di quanto incassato al fine di restituirlo in contanti ai referenti del capo sul cantiere.

Con il sequestro dell’azienda, per la prima volta in Italia, il Tribunale della Spezia applica la legge contro il caporalato del 2016 nella parte che prevede l’affidamento dell’azienda a un amministratore giudiziario, incaricato di garantire continuità alla società e salvaguardare i posti di lavoro. Lo scopo è quello di incentivare i lavoratori sfruttati a denunciare i propri datori di lavoro senza temere di restare senza lavoro e permesso.A questo proposito Bruno Larosa, il commercialista scelto dal Tribunale per amministrare la società, si dice ottimista: “Ho già incontrato i responsabili dei cantieri dov’era attiva la società in subappalto e mi auguro di poter reintegrare i lavoratori onesti e garantire continuità occupazionale. Spero che questa vicenda possa risolversi al meglio e possa fare scuola per casi analoghi”.

La G.S. Painting non sembrerebbe in effetti l’unica azienda a utilizzare metodi criminali: “Pensare che sia un caso isolato sarebbe ingenuo. Le organizzazioni criminali hanno sistemi sofisticati e spesso i lavoratori non sono in condizioni di dimostrare le ingiustizie e i soprusi che ci confidano” spiega la segretaria della Cgil Lara Ghiglione, che a settembre ribadiva al Fatto.it la carenza di ispettori del lavoro e la conseguente carenza di controlli nei cantieri navali. A lanciare l’allarme, tre anni fa, era stata anche la confederazione degli artigiani nautici: “È una situazione che era sotto gli occhi di tutti – ribadisce la presidente della Cna di La Spezia Federica Maggiani – con un rapporto tra dipendenti diretti e indiretti del 40 a 60 e un sistema di subappalti incontrollato era inevitabile che i prezzi e i ritmi di lavoro siano insostenibili. Assieme ai diritti dei lavoratori bisogna tornare a mettere al centro professionalità e qualità”.

Emamul Molla, che ha trovato il coraggio di alzare la testa e rivendicare questa lotta per la dignità del lavoro, nonostante le reiterate minacce ricevute, racconta al Fatto.it come si finisce nel vortice dello sfruttamento: “Prima di ricevere il primo accredito passano tre mesi. Quando scopri che la cifra accreditata è inferiore a quanto pattuito, e va in gran parte restituita in contanti, è spesso troppo tardi. Molti di noi devono onorare debiti in Bangladesh o con altri connazionali, non farlo metterebbe a rischio i nostri cari. Per questo si resta in cantiere, in mancanza di alternative, facendosi bastare quel poco che si riesce a guadagnare finche si è fisicamente in grado di reggere”. Shipon Fokir, 21 anni e i segni del difficile passaggio dalla rotta libica sul volto, ha resistito un anno: “Era impossibile resistere più a lungo, mi facevano piangere e lavoravo tutto il giorno”, Emamul Molla, 28enne arrivato in Italia nel 2008, è restato nonostante tutto in azienda più a lungo, fino a quando le minacce e i calci non hanno prevalso sulla sua volontà di avere indietro i soldi arretrati: “In attesa sia fatta piena giustizia e ci venga riconosciuto quanto ci spetta, speriamo che questa storia possa essere di esempio per tanti altri lavoratori trattati come schiavi in Italia”.

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