di Donatello D’Andrea

Quando in Italia accade una tragedia, l’opinione pubblica si infervora e si scaglia ferocemente contro i presunti responsabili dell’accaduto, urlando invettive e maledizioni perché non hanno fatto nulla per prevenire il misfatto.

Quando in Italia accade qualcosa, l’opinione pubblica pronuncia sentenze, assolve la funzione di giudice dei social, travisa completamente il nocciolo della questione, inquinando un dibattito pubblico già di per sé esasperato ed esasperante.

Ciò è accaduto anche con la tragedia del piccolo Joseph e dell’ennesimo naufragio nel Mediterraneo. Le immagini strazianti dei bambini e delle persone in mare hanno toccato il cuore di tutti, anche di coloro i quali sanno solo rispondere con slogan, epiteti poco corretti e con la solita propaganda irrispettosa per chi affronta un viaggio per scappare da quell’inferno che noi occidentali mai potremmo comprendere.

La soluzione, secondo alcuni, era quella di chiudere i porti. Lo ha ripetuto anche un ex ministro molto affezionato al tema: “Chi fa politica dei porti aperti, incentivando le partenze, aumenta la probabilità di tragedie”. Una soluzione semplice. Se chiudi i porti non arriva nessuno. Un po’ come chiudere la porta di casa nella speranza che nessuno venga a bussare.

In questa frase c’è tutta la faciloneria italiana, la quale afferma che per poter risolvere un problema complesso occorrano solo soluzioni semplici. Un mantra che si ripete ormai da diversi anni, adducendo la scusa che “se siamo in questa situazione è colpa dei cervelloni”.

Le persone in fuga da guerre, persecuzioni, carestie, da quelle carceri a cielo aperto che gli stessi governanti italiani hanno taciuto, sono sempre più esposte al rischio di morire a causa dell’incuria internazionale. L’unica soluzione da loro contemplata è quella di mettersi su una carretta e sperare in un futuro migliore. Ma buona parte dell’opinione pubblica italiana crede sia colpa loro. “Beh se partono e poi muoiono, la colpa è loro che conoscevano i rischi di imbarcarsi”. Oppure “è colpa del governo che non ha chiuso i porti”, frase senza senso che ignora totalmente il diritto internazionale e del mare.

Quando muore un bambino, la macchina dell’indignazione tarda a partire. Ma comunque parte. Un paio d’ore per metabolizzare il lutto e le accuse ripartono più forti di prima, perché intrise di emotività. Quando invece si tratta di quei “maschi robusti con lo smartphone” ci si chiede solamente perché non siano rimasti in patria.

Nessuno si azzarda a chiedere il motivo per cui queste persone abbiano deciso di imbarcarsi pur sapendo di poter morire nel tragitto. Nessun accenno alla situazione politica libica, ai giochi di potere in atto tra gli stati e agli interessi economici.

Il dibattito politico italiano preferisce polarizzarsi su posizioni opposte, inconciliabili e inutili. Meglio un derby tra “accoglisti e razzisti” che una politica in grado di informare i propri elettori su ciò che accade nel mondo.

L’immigrazione è un fenomeno complesso e come tale va trattato. Non è solo una questione morale, un problema temporaneo oppure uno dei tanti argomenti di discussione al bar. Richiede un approccio serio e strutturale da parte di tutti.

La politica è chiamata a una ammissione di colpa collettiva, dato che per anni ha fomentato un dibattito pubblico completamente fuorviante. E soprattutto è tenuta ad approcciarsi al problema con onestà ed equilibrio, promuovendo una discussione costruttiva e non distruttiva, presentando agli elettori il problema per quello che è. Non uno slogan, non propaganda ma una congiuntura internazionale che come tale va affrontata.

D’altronde, come recita un’iconica poesia: “nessuno mette i suoi figli su una barca, a meno che l’acqua non sia più sicura della terra”. Non serve a nulla indignarsi, stracciarsi le vesti per l’ennesima tragedia in mare quando l’approccio alla vicenda è ipocrita, filisteo e intriso di luoghi comuni.

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