Le linee di indirizzo sull’aborto farmacologico promulgate dal ministero della Salute il 4 agosto scorso rendono possibile interrompere una gravidanza con i farmaci, Ru486 e prostaglandine, fino alla nona settimana di gestazione, in ospedale in day hospital o in consultori e ambulatori adeguatamente attrezzati. L’applicazione delle linee di indirizzo ministeriali, però, dipende in parte dalle Regioni. Mentre Toscana, Lazio ed Emilia Romagna vanno nella direzione indicata dal ministero, il Piemonte e l’Umbria si oppongono e in tutte le altre vince l’immobilismo.

Sul limite per la somministrazione, che viene spostato dalla settima alla nona settimana dall’inizio della gestazione, c’è poco da derogare. In questo caso la determina dell’Agenzia italiana (n. 865/2020) è “cogente”, come si dice in gergo tecnico. A partire dal 12 agosto, data di pubblicazione della determina in Gazzetta Ufficiale, i due principi utilizzati nella procedura di aborto farmacologico, Myfegine più un “analogo delle prostaglandine”, possono essere utilizzati fino al 63° giorno di età gestazionale (si calcola a partire dal primo giorno dell’ultima mestruazione e nei casi dubbi la datazione della gravidanza si fa con l’ecografia).

Sulla de-ospedalizzazione indicata dalle nuove linee di indirizzo ministeriali, invece, l’iniziativa delle Regioni è determinante. Perché l’aborto farmacologico sia fattibile in consultori o ambulatori adeguatamente attrezzati (e funzionalmente collegati all’ospedale), possibilità già prevista dall’art. 8 della legge 194, le Regioni devono formalizzare il recepimento delle linee di indirizzo nazionali e aggiornare il nomenclatore tariffario regionale. Il percorso assistenziale delineato dal Ministero consisterebbe in quattro fasi, che si possono svolgere in ambulatorio ospedaliero o in ambulatorio/consultorio territoriale adeguatamente attrezzato, pubblico privato convenzionato.

Pre-intervento: la procedura dovrebbe iniziare nel consultorio familiare, individuato come luogo istituzionale di applicazione della legge 194/78, che ha il “ruolo strategico di tutela e promozione della salute della donna”. Lì dovrebbe avvenire la presa in carico, quindi il colloquio preliminare, la certificazione, l’anamnesi, le valutazioni cliniche e psicologiche. Considerando che i consultori si sviluppano con diverse modalità organizzative nel territorio nazionale, il documento ministeriale afferma che il percorso potrà essere preso in carico anche da ambulatori di ginecologia ospedalieri. Il primo colloquio potrà essere telefonico o diretto, ma in ogni caso tracciabile, al termine del quale bisogna accertarsi che la donna abbia chiare le caratteristiche della procedura di aborto farmacologico. In questa fase si svolgono anche le analisi del sangue necessarie.

Primo giorno: in day hospital, consultorio o ambulatorio, viene dato il primo farmaco (mifepristone) e la donna può andare a casa dopo 30 minuti.
Terzo giorno: in ambulatorio, consultorio o day hospital: è somministrato un antinfiammatorio per prevenire il dolore e il secondo farmaco abortivo, le prostaglandine (misoprostolo o analogo); dopo tre ore di osservazione, si valuta se somministrare un’ulteriore dose e dopo altre due ore la paziente viene dimessa.
Controllo: dopo 14 giorni dall’assunzione di prostaglandine, è necessario controllare con ecografia che l’aborto sia completo.

La somministrazione in day hospital era già stata formalizzata da Emilia Romagna, Toscana, Puglia, Lombardia. Altre Regioni, come Piemonte e Liguria, non hanno formalizzato la procedura che però è diventata pratica corrente in molti ospedali, come spiega Silvio Viale, ginecologo del Sant’Anna di Torino, ospedale che copre circa i due terzi delle IVG farmacologiche della provincia.

Quanto ad un maggiore protagonismo dei consultori, le linee di indirizzo sono destinate a restare lettera morta se le Regioni non provvederanno a deliberare in materia. Lo hanno fatto di recente Emilia Romagna e Lazio, in entrambi i casi con una determina del dipartimento socio-sanitario che ha recepito formalmente le linee di indirizzo ministeriali. Per concretizzare, però, le Regioni devono anche aggiungere una voce di spesa nel nomenclatore tariffario regionale. Così da permettere a consultori e ambulatori il rimborso per la prestazione, che sarà gratuita per le donne come già avviene in ospedale. Dall’Assessorato alle Politiche per la salute della Regione Emilia-Romagna fanno sapere che in regione nel giro di 4-6 settimane sarà possibile effettuare l’aborto farmacologico anche nei consultori pubblici, oltre che in day hospital, e che “il protocollo operativo garantirà, pur in un diverso setting assistenziale, le medesime garanzie e continuità dell’assistenza già garantite in ambito ospedaliero”.

La Toscana ha deliberato il 22 luglio, prima quindi delle linee di indirizzo ministeriali, ma l’organizzazione dei servizi con relativa esperienza degli operatori era già molto avanti, perlomeno in alcune zone. Lo spiega Barbara del Bravo, ginecologa dell’ospedale Pontedera (Pisa), dove l’IVG farmacologica è partita nel 2005. Dal 2010 con protocollo che prevedeva day hospital fino a 7 settimane, con presa in carico delle donne in consultorio, accesso in ospedale direttamente il giorno dell’intervento o dell’inizio della procedura farmacologica, controllo dopo due settimane in ospedale e ritorno in consultorio per la contraccezione. Durante l’emergenza Covid si è deciso di non trattenere più le donne in ospedale, dando la possibilità dell’aborto at home, per cui le donne andavano a casa dopo aver ricevuto, insieme ai farmaci, le istruzioni e i numeri di telefono per restare in contatto. Oggi le donne tornano in ospedale per ricevere sia il primo che il secondo farmaco, ma se vogliono poi possono andare a casa e tale organizzazione dovrebbe estendersi a tutto il territorio regionale.

Diverso il caso del Piemonte, dove regna la confusione dopo che il sito della Regione ha diffuso la notizia che l’amministrazione starebbe valutando l’opportunità di una circolare per “vietare l’aborto farmacologico direttamente nei consultori”, e per attivare “sportelli informativi all’interno degli ospedali, consentita ad idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita”. La circolare, per ora solo annunciata, ha messo in allerta la rete di associazioni, collettivi e realtà sindacali che in passato si era mobilitata contro il progetto di legge Pillon, come racconta Tullia Todros, docente di ginecologia e ostetricia dell’Università di Torino, che fa parte della rete.

In Umbria non è tornata indietro la giunta Tesei, che a giugno scorso aveva abrogato una precedente legge regionale – approvata dalla giunta precedente di centrosinistra – che permetteva di somministrare la pillola Ru486 in day hospital e poi a domicilio. L’evento scatenò un’ondata di reazioni politiche e di piazza che sollecitarono il ministero ad interpellare il Consiglio superiore di sanità per la modifica delle vecchie linee di indirizzo, datate 2010 e giudicate arretrate anche dalle società scientifiche di settore (SIGO). La delibera del centro-sinistra è molto recente, 2018, e anche per questo ad eseguire la IVG medica sono solo 5 ospedali, tutti medio-piccoli e nessuno dei 2 grandi ospedali di insegnamento di Perugia e Terni.

In altre Regioni la rete dei consultori pubblici è talmente provata da decenni di tagli che sembra difficile realizzare le intenzioni delle linee ministeriali. Come in Lombardia, una delle regioni dove si spende meno per la medicina territoriale e dove i consultori privati accreditati di ispirazione cattolica hanno già dal 2000 la possibilità di fare “obiezione di coscienza di struttura”. Qui Paola Bocci, consigliera regionale Pd, ha depositato un’interrogazione a risposta scritta per sapere quali sono le intenzioni della giunta rispetto alle linee ministeriali di indirizzo.

Se la palla ora è in mano alle Regioni, una grossa spinta verrebbe dal Ministero della salute se inserisse la prestazione nel nomenclatore tariffario nazionale. Lo spiega a Ilfattoquotidiano.it l’Assessorato alle Politiche per la salute della Regione Emilia-Romagna: la circolare ministeriale, quella che contiene le linee di indirizzo, riporta il parere favorevole del Consiglio superiore di sanità circa l’erogazione in regime ambulatoriale e di day hospital, ed esprime la raccomandazione di un attento monitoraggio. “Trattandosi di una circolare con questi contenuti – dicono dall’Assessorato – è difficile che relativamente al setting assistenziale possa costituire un obbligo per le regioni. Se la prestazione ambulatoriale fosse inserita nel nomenclatore nazionale e costituisse a tutti gli effetti una prestazione da garantire forse l’impegno per le regioni sarebbe più cogente”.

Lo ha chiesto anche Pro-choice RICA (rete italiana contraccezione aborto), che il 28 settembre scorso, giornata internazionale per l’aborto sicuro e gratuito, ha sollecitato con una lettera il Ministero della salute su una serie di azioni che darebbero continuità e concretezza alle linee di indirizzo: chiarezza sul nomenclatore tariffario, campagne informative, che nel Recovery Plan si prevedano fondi per i consultori, non solo legati alla digitalizzazione, ma piuttosto finanziamenti che vadano a coprire le carenze crescenti di personale, di formazione, e di attrezzature.

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