E’ bastato un “click”. L’interruttore di Aleksandr Lukashenko domenica sera ha spento Internet e bloccato le comunicazioni mobili in Bielorussia. E’ lo “switch” della censura digitale, quello che in un attimo tronca la più moderna forma di vita democratica e isola tutto e tutti. E’ l’espressione più violenta delle modalità di cancellare la democrazia, quella che va ben oltre il limitare la navigazione online, il filtrare i contenuti, il controllare chi-fa-cosa alle prese con un pc o uno smartphone.

La pressione di quell’invisibile pulsante placa le rivolte e spegne il dissenso, impedendo la libera circolazione delle informazioni, chiudendo il sipario su un palcoscenico dove a quel punto può verificarsi qualunque cosa, oscurando le scene, ammutolendo le voci, mettendo sottovuoto eventi che non verrebbero ammessi e perdonati dall’opinione pubblica mondiale.

La sesta rielezione consecutivo del leader bielorusso arriva dopo feroci critiche sulla gestione politica del Paese e sulla incapacità di affrontare l’emergenza della pandemia, ma l’innesco dell’esplosione della rabbia è il sospetto (e forse non solo il sospetto) che il risultato delle consultazioni sia stato vergognosamente manipolato con brogli epocali.

L’illegittimità dell’esito elettorale fa scendere la gente in piazza e a quanto pare non sono bastati i reparti speciali di polizia ed esercito a stoppare la sommossa. Le truppe che hanno invaso Minsk e altre città in ebollizione probabilmente non sono state sufficienti e quindi ecco scattare la mossa del blocco telematico agevolato dal controllo governativo sulla società di telecomunicazioni Rue Beltelecom che eroga i servizi sull’intero territorio. Zero connettività, reti mobili paralizzate, telefoni fissi incredibilmente inerti.

Il risultato è facilmente immaginabile. I “sovversivi” sono inchiodati dall’impossibilità di scambiarsi informazioni e di attivare qualsivoglia iniziativa che abbia un minimo di coordinamento. La popolazione non sa cosa stia accadendo e nessuna notizia deborda i confini bielorussi perché non c’è modo di raccontare e far conoscere al mondo l’evoluzione della situazione.

Lunedì Lukashenko si affretta a dire che la Bielorussia è sotto attacco informatico e parla di una aggressione internazionale. La società telefonica comunica di essere al lavoro per ripristinare i collegamenti e il Computer Emergency Response Team istituzionale avvalora le dichiarazioni del proprio Presidente che – in questa maniera – ha un alibi apparentemente inattaccabile.

Peccato che già sabato (come dimostra un profetico articolo del giornale russo Moskovsky Komsomolets) un funzionario commerciale aveva sconsigliato ai giornalisti che lo intervistavano di continuare a cercare una sim card bielorussa perché domenica il servizio telefonico e la connessione alla rete sarebbe stata problematica se non addirittura impossibile.

Addirittura il martedì precedente le votazioni, il 4 agosto, un post che circolava su Telegram mostrava lo screenshot di un messaggio in posta elettronica con cui un impiegato bancario bielorusso informava la clientela dell’istituto di credito dell’imminenza di una interruzione dei servizi online.

Il Segretario di Stato Usa Mike Pompeo lunedì non aveva esitato a rendere nota una dichiarazione ufficiale in cui lamentava la poca chiarezza delle consultazioni elettorali e la necessità di garantire ogni diritto alla popolazione bielorussa.

Nell’epoca della “Guerra fredda” la fantasia della gente era concentrata sul leggendario “bottone rosso” con cui i leader americano e russo potevano rispettivamente scatenare l’inferno bellico dai contorni nucleari. Oggi l’interruttore che va maggiormente di moda è quello che tronca l’interscambio di informazioni. E’ una dinamica di facile attuazione e di sempre più frequente utilizzo, così come si è potuto constatare in Egitto, Iran, Etiopia, India, Venezuela e tanti altri Stati con seri problemi di democrazia e di conseguente ordine pubblico.

Una manovra così ardita e discutibile in questo caso ha trovato giustificazione nell’attacco cibernetico alla Bielorussia, assalto che – incruento ed invisibile – diventa difficile capire se mai abbia avuto luogo, con quale intensità e da quale aggressore.

Un “pulsantone” così lo abbiamo anche in Italia. La genesi dell’interruttore tricolore la si trova nel decreto legge 21 settembre 2019 n° 105 (convertito dalla legge 133 del successivo 18 novembre) che parla dettagliatamente di disposizioni urgenti in materia di perimetro di sicurezza nazionale cibernetica.

Dalle nostre parti non sono mancati i dubbi sulla reale efficacia a difesa di arrembaggi hacker e soprattutto è emersa la preoccupazione di un possibile uso improprio di certi strumenti. Il timore è sicuramente eccessivo, ma “andreottianamente” a pensar male si fa peccato ma magari i complottisti corrono il rischio di indovinare.

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