La legge contro l’omotransfobia sarà presto discussa nelle sedi opportune. Vediamo cosa significa concretamente essere oggetto di discriminazione e violenza, a cominciare dal contesto domestico e familiare

Ale è un ragazzo transgender. Nato con organi e cromosomi femminili, si percepisce uomo. È un FtM. Da “femmina” a maschio. E tutto è a posto, dirà qualcuno. Qualcun altro, invece, farà una smorfia di disapprovazione. La vita andrà avanti. La sua, quella di Ale, di sicuro. Con o senza l’approvazione degli altri. Di certo, senza l’approvazione della sua famiglia, che il giorno dopo il suo 18esimo compleanno l’ha buttato fuori casa. O ti fai curare o via da qui, in poche parole. Ale ha scelto se stesso.

Troviamo questa storia nel libro d’esordio di Simone Alliva, Caccia all’omo – Viaggio nel paese dell’omofobia (Fandango, 2020). Il giovane giornalista dell’Espresso ha percorso a lungo l’Italia, alla ricerca di vicende siffatte. L’odio contro le persone Lgbt+ ha una dimensione privata: si consuma nel chiuso delle nostre case. Tra famiglie che, tra aspettative sociali e i propri figli, decidono di tradire questi ultimi. Ma è anche fenomeno di massa. Fatto collettivo. Perché coinvolge un’intera società. E confluisce in una politica nei migliore dei casi disattenta o in ritardo. Ragion per cui aspettiamo una legge da 25 anni.

Alliva continua nel suo racconto: “Bisogna immaginare la scena – scrive – pensateci un momento. Il giorno prima la cena di compleanno con gli amici e i genitori, regali e candeline da soffiare, selfie e abbracci. Il giorno dopo non rimane più nulla. La strada. Solo quella”. La storia di Ale è fatta di violenza, privazione (degli affetti, in primo luogo) e di menzogne sul suo conto. Per giustificare l’allontanamento da casa, il padre ha detto al fratellino che aveva preferito il mondo della droga.

Alliva rimane colpito dalla reazione del suo interlocutore, di fronte a tutto questo: “Sorride sugli episodi più amari. All’inizio lascia perplessi. Racconta dei pugni del padre e sorride. Dei giorni in strada e scoppia in una risata. Poi comprendo: la risata è uno strumento di sopravvivenza”. Come se volesse confondere tutto quel dolore, perché non lo ghermisca più. Anche se poi, ci racconta ancora Alliva, il dolore torna. E Ale infine scoppia in lacrime.

Non è questa l’unica storia di soprusi, purtroppo. Ci sono le minacce agli attivisti. I numeri della violenza. Le menzogne, ancora queste, riversate sulla dignità di un’intera comunità, come certi luoghi comuni per cui la nostra stessa esistenza sarebbe una minaccia per le famiglie “normali”. Le stesse, che poi, aspettano che tu compia 18 anni per sbatterti fuori.

Questo viaggio nel paese dell’omofobia è un percorso nella paura, ma non solo. È anche poderosa narrazione della forza di chi affronta tutto quest’odio. Ti sembra di sentirle, le voci delle persone intervistate: ne percepisci la gravità. E tutto questo con una prosa rapida, essenziale, densa di un senso del dramma che non è mai commiserazione. Il libro di Alliva è una lucida denuncia sociale che non ha bisogno di orpelli fini a se stessi, ma si sorregge con la forza dello stile giornalistico e narrativo insieme. E arriva come un pugno, nello stomaco. Come gli stessi pugni che Alliva stesso ha dovuto subire – come denuncia nelle prime pagine – per aver avuto “la colpa” di aver raccontato l’iter delle unioni civili, nel 2016.

Ma torniamo alla storia da cui siamo partiti. Eravamo rimasti sulle risate in sospeso. Quando Ale ride del dolore, come per esorcizzarlo: “Ride finché non sente il silenzio intorno, poi la voce si incrina, gli occhi diventano lucidi. Il mestiere di giornalista è quello di riportare i fatti. […] A nessuno interessano le lacrime”, ricorda ancora. Ed è qui che il respiro ti si spezza. Le lacrime “non sono un fatto, una notizia. Rispetto a ciò che pubblichiamo molto di questo resta fuori. Io ascolto mentre racconta – prosegue ancora Alliva – ride finché non scoppia a piangere. E piangiamo insieme, ridendo”.

In questo pianto comune, si rompe il diaframma tra fatto privato e tragedia collettiva. Qualcuno parlerebbe di empatia di fronte a un odio che non ha ragioni reali per sussistere. Un odio che è come un sangue oscuro che dagli organi sociali più grandi si riversa fino alle più piccole ramificazioni del nostro tessuto sociale. Ed è qui che bisogna intervenire culturalmente, prima ancora che penalmente. Per la storia di Ale. Per tutte le storie raccontate nel libro di Simone Alliva.

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