di Claudia De Martino*

È indubbio che sia più facile indignarsi per le cause lontane, che non ci coinvolgono direttamente e non intaccano interessi materiali tangibili e posti di lavoro. Per questo lo scorso 9 giugno per i nostri deputati inginocchiarsi in segno di solidarietà con la morte violenta per mano della polizia Usa di George Floyd in nome del razzismo contro i neri è risultato più facile che bloccare l’ennesima vendita di armi da parte di un Governo di centro-sinistra all’Egitto.

Peccato che anche le vite dei cittadini egiziani dovrebbero contare qualcosa e vendere fregate e armi ad un Paese che continua ad usarle contro i propri cittadini non sia esattamente un atto in linea con i valori della grande sollevazione antirazzista che ha scosso il mondo nelle ultime settimane.

Il 1° maggio la morte del giovane videomaker Dhady Habash nella temibile prigione di Tora, accusato di aver diffuso “false informazioni” e detenuto in attesa di processo, ha commosso l’opinione pubblica occidentale, così come a febbraio scorso l’arresto senza imputazione dello studente George Patrick Zaky dell’Università di Bologna durante una breve visita in patria e il recente suicidio dell’attivista Lgbt Sarah Hegazy, rifugiatasi in Canada a seguito delle torture e dello stupro subito nelle prigioni egiziane.

L’accanimento contro la famiglia di intellettuali ed attivisti Seif è noto al pubblico sia per l’eminente ruolo mediatico di Alaa Abdel-Fattah, blogger anch’egli detenuto senza processo nella prigione di Tora dopo essere stato rapito dalla polizia nel settembre del 2019, sia per l’arresto alcuni giorni fa della sorella minore, andata solo a trovarlo in carcere, che per gli splendidi libri di denuncia pubblicati dalla zia, la celebre scrittrice Ahdaf Soueif.

Pochi volti noti di una popolazione carceraria di circa 110mila detenuti tra cui molti prigionieri di coscienza, che su una popolazione di 90 milioni potrebbero non rappresentare una cifra sorprendente, se non fosse per l’assenza di processi, la sospensione indefinita dei termini di arresto, il sistematico ricorso alla tortura e la persecuzione degli oppositori politici da parte del regime militare alla guida del Paese dal 2013.

Non basta: il regime è anche la terza prigione a cielo aperto al mondo per giornalisti dopo Cina e Turchia: giornalisti e prigionieri di coscienza considerati i peggiori nemici dello Stato, dal momento che nessuno di loro è rientrato tra gli oltre 10.000 detenuti a cui il Presidente ha concesso la grazia per il Covid-19.

Come rivelato da un’indagine de il Post, nel 2018 l’Italia “ha autorizzato sei nuove esportazioni di sistemi militari dal valore di oltre 69 milioni di euro, rendendo il regime egiziano il terzo acquirente assoluto di armi italiane tra gli stati extra Nato ed extra Ue”.

Il Fatto Quotidiano ha riportato come Lia Quartapelle, deputata del Pd, il 18 giugno scorso durante l’audizione parlamentare del premier sia stata una delle poche voci dissenzienti a criticare la relazione ipocrita pronunciata dal Presidente Conte di fronte alla Commissione che indaga sulla morte di Giulio Regeni: non solo l’Italia non avrebbe minacciato l’Egitto di ritorsioni, ma esso sarebbe scalato in vetta nella classifica dei partner commerciali per la vendita di armi.

Una crescita del flusso commerciale bilaterale assolutamente non intaccata dalla violenta morte di Giulio nel gennaio 2016, ma anzi triplicata proprio nel corso del quinquennio 2013-2018 e che si accinge a toccare il suo apice con la commessa miliardaria (1.2 miliardi di euro) a fronte della quale il Governo italiano si impegnerà a produrre un vero e proprio arsenale per l’Egitto: altre 4 fregate militari, 20 lanciamissili anticarro, 24 cacciabombardieri Eurofighter Typhoon, 24 M-346 jet leggeri e un satellite militare (al Monitor, 14/6/2020).

L’Egitto è oggi infatti il terzo Paese importatore di armi al mondo e certamente un mercato troppo attraente per farselo sfuggire; tuttavia, così facendo, il Governo italiano non soltanto disattende la promessa di fare chiarezza sull’omicidio di un connazionale, ma opera in modo incompatibile con l’interesse nazionale.

Come sagacemente evidenziato da Alberto Negri, mentre nella vicina Libia nominalmente l’Italia sostiene il legittimo governo al-Sarraj, quello stesso governo vende armi al regime egiziano impegnato nel campo avverso, ovvero in difesa dell’avversario Haftar, indice di una condotta quanto meno contraddittoria.

Economia e politica estera non sembrano puntare nella stessa direzione e trovare una sintesi virtuosa nel Governo italiano, che troppo spesso, e anche in materie più vicine alla vita quotidiana, non riesce a compiere scelte di campo nette, prefiggendosi al contempo più obiettivi tra loro contraddittori. Nella vendita delle armi all’Egitto, così come nel conflitto in Libia, sembrano pesare soprattutto considerazioni relative alla competizione con la Francia e alla possibilità che quest’ultima, agendo in maniera altrettanto spregiudicata, si aggiudichi mercati ed aree di influenza tradizionalmente italiane.

È allora chiaro che la ragion di Stato primeggi sulla difesa dei diritti umani, ma resta che le parole pronunciate dal premier Conte lo scorso 19 giugno suonino offensive dell’intelligenza del cittadino italiano medio: “nessuna visita di Stato con tutti gli onori sarà possibile e nemmeno la mia partecipazione all’inaugurazione dell’Università del Cairo”.

Certamente il premier Conte attribuisce ai banchetti diplomatici e al mondo della cultura pari valore che al semi-monopolio dell’Eni nella produzione e distribuzione di gas naturale e al lucrativo commercio nazionale di armi con l’Egitto e si aspetta che la famiglia Regeni e i cittadini italiani non ancora intellettualmente narcotizzati dal Covid-19 credano ancora alle sue parole.

*ricercatrice esperta di questioni mediorientali

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