“Quelle sconosciute ci hanno aggredito, picchiato con i bastoni e derubato di tutto mentre la polizia e le guardie carcerarie non muovevano un dito, anzi apparivano quasi divertiti”. Lunedì alle prime luci dell’alba, davanti la famigerata prigione di Tora, alla periferia sud del Cairo, nessuno degli agenti egiziani in divisa presenti ha mosso un dito per difendere le vittime della brutale aggressione.

Il j’accuse di Mona Seif, nota attivista egiziana, va dritto al punto e dimostra come dietro l’episodio ci sia la mano connivente del regime. Lei, sua sorella Sanaa e soprattutto sua madre Laila Seif si trovavano davanti all’ingresso del carcere dove è rinchiuso Alaa Abdel Fattah e tutti i detenuti politici per reati di coscienza, tra cui il ‘nostro’ Patrick Zaki. Lì avevano trascorso la notte. Da settimane Laila Seif e le due figlie stanno portando avanti una protesta nei confronti delle autorità carcerarie e del ministero dell’Interno egiziano a causa del muro di gomma eretto tra loro e Alaa Abdel Fattah, figlio e fratello delle tre donne, rinchiuso a Tora dal 29 settembre scorso. E oggi (23 giugno), poco dopo le 14, Sanaa è stata prelevata davanti alla sede della Procura generale a el-Rehab, nell’area di New Cairo, buttata dentro un furgone bianco che poi si è allontanato in gran fretta. Tutto ripreso in un video postato quasi in diretta sui social da Mona Seif che mostra come l’episodio sia avvenuto in pieno giorno e davanti a tanta gente. Vibrante la reazione delle organizzazioni dei diritti umani: “Chiediamo alle autorità di avere informazioni su dove si trovi Sanaa Seif e di farla tornare a casa al più presto, oltre a mettere in atto una investigazione imparziale sui fatti del carcere di Tora”, chiede attraverso una nota la Commissione egiziana per i diritti e le libertà (Ecrf).

Una specie di staffetta la loro, fatta di bivacchi, presidi e attese infinite e infruttuose nella speranza di ricevere un segnale positivo. Dall’inizio dell’emergenza pandemica Coronavirus, la famiglia Seif non ha più notizie certe sullo stato di detenzione di Alaa, non riesce a entrare in contatto con lui, visivo e neppure epistolare (a parte un’eccezione nel mese scorso). La foto di Laila Seif, stimata professionista e dottoressa, nel maggio scorso mentre dormiva sopra un cartone all’ombra del muro di cinta del carcere, di cui il Fatto.it si è occupato, aveva fatto il giro del mondo.

La protesta è montata e l’intensità con cui Laila e le sue figlie hanno portato avanti il loro dissenso è cresciuta. Fino a ieri mattina: “Eravamo tutte e tre sedute a terra, sempre in attesa di ricevere un segnale dalle autorità carcerarie per incontrare o far avere degli effetti ad Alaa – racconta al Fatto.it Mona Seif, ancora molto agitata e incredula – Tutto procedeva come al solito, lunghe e inutili attese, quando siamo state avvicinate da un gruppo di donne in abiti civili. Hanno iniziato a fare delle domande, poi si sono avvicinate mettendo le mani dentro le nostre borse, toccandoci e infine passando alle vie di fatto. Sono cominciate le molestie, poi le botte, usando anche dei bastoni. Io e mia sorella Sanaa abbiamo lividi e ferite su tutto il corpo. Lei, in particolare, molto profonde, tanto da dover andare in ospedale. Di quelle donne ne arrivavano in continuazione e mentre una parte ci picchiava, altre hanno preso le nostre borse, potandoci via tutto, soldi, documenti e cellulari. Fortuna che il mio lo avevo lasciato in macchina. Era una banda ben organizzata e protetta, inviata per uno scopo preciso. Le risate e gli incitamenti degli agenti di guardia a Tora ne sono la prova. All’ufficiale che era presente, di cui conosco nome e grado, e ai suoi sottoposti dico che un giorno anche loro saranno giudicati e pagheranno per il loro comportamento”.

Stamattina Laila Seif è tornata al carcere di Tora assieme all’avvocato Khaled Ali, candidato e poi ritiratosi a causa del clima di intimidazione e repressione alla vigilia delle presidenziali del 2018. Come ogni giorno, da maggio, la richiesta è poter incontrare Alaa o fargli recapitare dei beni di prima necessità, delle lettere, libri e giornali. Successivamente hanno raggiunto Mona e Sanaa Seif per recarsi nell’ufficio del Procuratore generale del Cairo, lo stesso che dovrebbe fornire collaborazione alle autorità italiane per il caso di Giulio Regeni e notizie sulla carcerazione di Patrick Zaki, lo studente Erasmus dell’università di Bologna, in prigione a Tora da più di cento giorni (arrestato il 7 febbraio scorso di rientro dall’Italia al Cairo per una breve vacanza, tutto per colpa di alcuni post su Facebook): “Possono commettere ancora atti come quello di ieri mattina e fare anche di peggio, ma se le autorità pensano che io mi fermerò nel chiedere giustizia per mio figlio si sbagliano di grosso – dice Laila Seif – La prima cosa che desidero, un mio diritto, è far avere una mia lettera da Alaa, così come succede per gli altri prigionieri ‘non politici’ a Tora”.

Alaa Abdel Fattah è alla sua quarta detenzione, scattata alla fine del settembre scorso dopo le proteste di piazza avvenute il 20 settembre a seguito della campagna di disubbidienza via social lanciata dall’attore e imprenditore Mohamed Ali, esule in Spagna. Nella retata successiva a quell’ondata di dissenso, la prima dopo le stragi dell’estate 2013 scaturite dal golpe guidato dall’attuale presidente, Abdel Fattah al-Sisi, sono stati coinvolti centinaia di egiziani. Sullo sfondo di un quadro accusatorio copia-incolla, il solito e indefinito reato di ‘terrorismo’.

Alaa, 38 anni, programmatore informatico, è stata una delle anime della rivoluzione di Piazza Tahrir nel gennaio del 2011. Per lui, e per la sua famiglia (tutti attivisti, a partire dal padre, Ahmed Seif al-Islam, morto nel 2014) è una battaglia infinita contro il regime, di qualsiasi colore. Lui stesso ne ha provato le durezze durante la sua vita, essendo stato arrestato sia ai tempi di Hosni Mubarak (nel maggio 2006), sia durante la fase di transizione post-rivoluzionaria (ottobre 2011, durante la quale è nato suo figlio), sia sotto la presidenza Morsi leader dei Fratelli Musulmani (marzo 2013) e due volte durante il regime di al-Sisi (2014 e 2019).

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