Gli occhi spiritati di Schillaci per un rigore non dato. La serpentina di Baggio contro la Cecoslovacchia. Le feste in piazza dopo le vittorie azzurre. Notti magiche prima della serata tragica. Napoli divisa. Maradona e Caniggia e Goycochea. Poi l’uscita sbagliata di Zenga e la delusione, forse la più grande di sempre, per l’eliminazione in semifinale. Sono le immagini di copertina di un ipotetico libro dal retrogusto amaro. Titolo possibile: ‘Mondiali Italia ’90, storia di un’occasione persa’. Perché l’eredità del torneo non si misura con il misero terzo posto della nazionale di Vicini. Il flop fu soprattutto organizzativo: tra costi esplosi e ritardi, le opere realizzate (almeno quelle che non sono state abbattute) erano e restano l’emblema dello spreco. Eppure fu un’edizione epocale, anche e soprattutto dal punto di vista sociale e geopolitico. A trent’anni esatti da allora, raccontiamo – a modo nostro – l’Italia, l’Europa e il mondo di quei giorni. Le storie, i protagonisti, gli aneddoti. Di ciò che era, di cosa è restato. (p.g.c.)

Quattro lettere, CCCP. Equivalenti all’acronimo Сою́з Сове́тских Социалисти́ческих Респу́блик. In lingua russa Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Sono stampate, su fondo rosso, sulle maglie della nazionale di calcio dell’Unione Sovietica. Eppure sulle casacche indossate per Italia 90 quelle quattro lettere non compaiono. Sono scomparse come è scomparso il Muro di Berlino (simbolo della divisione del mondo in Est e Ovest) appena otto mesi prima. Un anno e mezzo dopo, il 25 dicembre 1991, anche la stessa Unione Sovietica cesserà di esistere. Se l’Armata Rossa giocherà l’ultima partita ufficiale a Cipro, il 13 novembre 1991 (tre a zero contro la formazione cipriota), il San Nicola di Bari diventa il teatro perfetto dove ambientare l’ultima sfida in una grande manifestazione.

È il 18 giugno 1990. L’Unione Sovietica del Colonnello Lobanovski sta uscendo dal terreno di gioco. Le reti di Protasov, Zygmantovic, Zavarov e Dobrovolski, nel quattro a zero al Camerun, sono buone soltanto per gli almanacchi. La partita, infatti, ha avuto la consistenza di un’amichevole già dal fischio d’inizio. Il Camerun, del tecnico siberiano Vasili Nepomniacij, era già sicuro del suo primo storico passaggio agli ottavi, mentre i sovietici, vice campioni d’Europa e campioni olimpici in carica, erano già certi dell’eliminazione. Questa era arrivata cinque giorni prima, con la sconfitta per due a zero contro l’Argentina.

Argentina-Unione Sovietica viene ricordata da molti come la partita da cui ha inizio la fine del sogno italiano. Dopo dieci minuti il numero uno biancoceleste Pumpido si fa male dopo un’uscita bassa. Al suo posto entra Goycochea. Venti giorni dopo sarà lui a eliminare l’Italia di Azeglio Vicini in semifinale a suon di miracoli e rigori parati. Per molti altri, invece, la sfida tra argentini e sovietici è quella della seconda “mano de Dios”. Sullo zero a zero Maradona intercetta con il braccio destro, sulla linea, un pallone che sta per finire in fondo alla rete. L’arbitro svedese Fredriksson è lì a un metro ma, incredibilmente, non ravvisa niente. Le reti biancocelesti di Troglio e Burruchaga faranno il resto.

Con una sconfitta per due a zero era finita anche la partita d’esordio contro la Romania di George Hagi. Il 9 giugno a decidere è stata una doppietta di Lacatus. L’Unione Sovietica si era presentata in Italia dopo aver vinto brillantemente il proprio girone di qualificazione e con una rosa che, per la prima volta, comprendeva anche giocatori provenienti da campionati stranieri. È il match in cui l’arbitro Cardellino concede un calcio di rigore giudicando dentro l’area un fallo di mano di Kidjatullin. In realtà, il fallo è avvenuto circa un metro fuori.

Quando, quel 18 giugno, l’Armata Rossa esce per l’ultima volta da un mondiale non viene calato il sipario su una nazionale qualsiasi. La storia del calcio sovietico è di quelle importanti e fonda il proprio prestigio sull’organizzazione sportiva, la resistenza atletica e la tecnica. Quella stessa tecnica che ha consentito a ben tre dei suoi interpreti di conquistare il Pallone d’Oro. Il primo trionfatore della serie è un moscovita morto tre mesi prima di Italia 90, conosciuto con il soprannome di “Ragno Nero”. Di reti non ne ha mai segnate ma, in compenso, ne ha evitate molte. Il suo nome è Lev Yashin. Ancora oggi è l’unico portiere presente nell’albo d’oro del Pallone d’Oro. Grazie alle sue parate l’Unione Sovietica ha vissuto il suo momento di maggior splendore. Oro olimpico a Melbourne 1956, vice campione d’Europa in Spagna nel 1964, quarto posto (miglior piazzamento di sempre) nel mondiale inglese del 1966 e, sopratutto, il titolo europeo nella prima edizione del torneo. È il 1960 e in Francia il numero uno sovietico subisce solo due reti.

La fine della carriera di Yashin coincide con l’ascesa di Oleh Blochin, il recordman di presenze e di rete con la maglia della CCCP. È lui il secondo Pallone d’Oro sovietico. Lo vince nel 1975, grazie ai successi in Coppa delle Coppe e Supercoppa Europea con la Dinamo Kiev di Lobanovski. Ha una personalità trascinante abbinata a una tecnica di rara eleganza. Tra andata e ritorno, le tre reti al Bayern Monaco di Beckenbauer, che consegnano la Supercoppa Europei alla Dinamo, le mette a segno tutte lui. È l’inizio anche del dinamo-centrismo dell’Armata Rossa. La maggior parte dei giocatori provengono infatti da Kiev. Una tendenza che accompagnerà l’Unione Sovietica fino alla sua fine. L’era di Blochin è segnata da due medaglie di bronzo alle Olimpiadi di Monaco ’72 e Montreal ’76, dal secondo posto agli Europei del 1972 (sconfitta contro la Germania Ovest), e dal “caso Cile” del 1973.

È il 21 novembre 1973, Santiago del Cile. È la partita decisiva per andare al mondiale in Germania. L’andata a Mosca è terminata zero a zero. Allo Estadio National ci sono circa ventimila spettatori. Sono passati pochi secondi dal fischio d’inizio e i giocatori della Roja si stanno avvicinando alla porta dell’Unione Sovietica. È stato deciso che la rete deve spettare a Francisco Valdes, il capitano. Una rete puramente simbolica. L’Unione Sovietica non si è presentata in Cile. L’Estadio National non è solo un impianto sportivo ma anche un campo di concentramento e di tortura per i dissidenti del regime militare appena instaurato dal generale Pinochet. Per rivedere l’Unione Sovietica a un mondiale si dovrà attendere il 1982 e l’impalpabile partecipazione in Spagna.

L’ultima apparizione iridata di Blochin è in Messico, nel 1986. È ancora un giocatore importante ma ha trentaquattro anni. Ormai non è più il centro dell’Armata Rossa. Il suo posto è stato preso da un giocatore alto 173 cm che fa della velocità la sua arma migliore: Ilhor Belanov. L’ultimo Pallone d’Oro. È uno dei migliori interpreti del nuovo “calcio laboratorio” che Lobanovski ha portato a perfezione dopo un decennio di dottrina. Adesso è lui ad avere in mano le chiavi della nazionale e della Dinamo Kiev. Al mondiale ci arriva dopo aver vinto la seconda Coppa delle Coppe della Dinamo contro l’Atletico Madrid. In Messico, dopo un girone passato agevolmente contro Francia, Canada e Ungheria, l’Unione Sovietica trova il Belgio agli ottavi. A Leon, Belanov mette a segno tre reti. I belgi quattro. Per l’Armata Rossa è una cocente delusione. Eppure la strada per la rinascita calcistica è segnata.

Sedici anni dopo l’ultima volta i sovietici tornano a giocarsi un Europeo. Siamo in Germania, è il 1988. Il dinamo-centrismo non è mai stato così forte. L’undici di Lobanovski vede in campo ben nove titolari della Dinamo Kiev. Tra questi però non c’è più Blochin. Nella prima fase l’Unione Sovietica non fatica e si mette dietro Olanda, Inghilterra e Irlanda. In semifinale c’è l’Italia di Azeglio Vicini. Qualcuno sostiene che gli azzurri siano favoriti, ma la pioggia rimescola tutte le carte in tavola. Tra il minuto 60 e 62, Litovchenko e Protassov, trascinano gli uomini di Lobanovski alla finalissima di Monaco di Baviera. Ad attenderli c’è ancora l’Olanda, già battuta uno a zero nel girone. Nell’undici di Michels, però, c’è una novità rispetto alla sfida precedente. In attacco, accanto a Gullit, non c’è più Bosman, ma Marco Van Basten. Sarà lui a decretare la fine del sogno sovietico.

L’Olanda è avanti per uno a zero (rete di Gullit) quando Muhren effettua un cross di prima con il mancino. Il pallone si impenna e pare destinato oltre la linea del calcio d’angolo. Van Basten lo rincorre con lo sguardo. Tutti sono in attesa del suo controllo. La posizione è troppo defilata. Tentare il tiro è impossibile. Eppure Van Basten decide di calciare al volo con il destro, accompagnando l’esecuzione con un elegante saltello. La sfera finisce nell’angolo opposto, sorvolando un sorpreso Dassaev. Sulla panchina olandese Rinus Michels si mette le mani nei capelli. È la rete del raddoppio, quella decisiva. Per gli Oranje è il primo titolo internazionale. Per la nazionale di Lobanovski, ancora una volta, rimane il rammarico di non aver saputo sfruttare le occasioni avute. Sullo zero a zero, infatti, Belanov ha fallito un calcio di rigore. L’Armata Rossa si rifà due mesi più tardi, a Seul, battendo due a uno il Brasile e vincendo la medaglia d’oro. È l’ultimo acuto di rilievo.

Dopo l’eliminazione da Italia 90 l’Unione Sovietica viene travolta dagli eventi geopolitici. Come entità sportiva, i sovietici resistono fino ad Euro 1992. Si qualificano alla fase finale ma la squadra non si chiama più Unione Sovietica, ma Comunità Stati Indipendenti. Un’altra storia è appena iniziata.

Twitter: @giacomocorsetti

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