di Riccardo Mastrorillo

Le proteste, non di imprenditori in difficoltà, ma di sedicenti teorici del liberismo, per il fatto che il governo non stia facendo abbastanza per aiutare le imprese, disvelano l’incoerenza dei falsi liberisti e la loro evidente strumentalità. Alcuni sono patetici ed esilaranti, altri, pur mantenendo una coerenza di fondo, entrano in contraddizione e non poco.

Per esempio il 4 aprile scorso Nicola Porro, giornalista che stimo, anche se non ne ho mai condiviso il suo anarcocapitalismo, scrive, nella sua “zuppa di Porro” su Il Giornale, lamentando non solo l’esiguità delle risorse stanziate, ma anche le difficoltà di ottenerle, lanciandosi in un improbabile parallelismo: “È come annunciare un pronto soccorso, ma vederlo realizzato dopo un mese: nel frattempo i pazienti muoiono”. L’assistenza sanitaria è uno dei doveri costituzionali dello Stato, l’assistenza alle imprese in difficoltà no! Ha, parzialmente ragione Porro quando scrive: “Quella economica e produttiva è una macchina affascinante, fatta di milioni di pezzi che, magicamente ed in modo apparentemente invisibile, si mettono d’accordo. Non esiste un direttore d’orchestra e coloro che hanno provato a regolare l’economia pianificandola hanno miseramente fallito“, però a rigore, se volessimo accettare la sua impostazione neoliberista, o meglio anarcocapitalista, dovremmo assumere il postulato che qualsiasi impresa, nella sua autonomia e libertà assoluta, dovrebbe assumersi tutti i rischi, anche quelli legati ad una pandemia mondiale, perché non può valere il principio dell’assoluta libertà d’impresa solo quando si tratta di privatizzare i profitti, ricorrendo però allo stato patrigno per la socializzazione delle perdite, come insegnava Ernesto Rossi.

In un ragionamento puramente neoliberista, lo Stato non dovrebbe preoccuparsi delle sorti di quelle piccole, medie e grandi aziende che, di fronte ad un fermo per motivi straordinari, non siano in grado di sopravvivere da sole. Molte aziende erano già in crisi prima dell’avvento del coronavirus, questo evento improvviso, naturale e imponderabile, non potrebbe finalmente fare emergere l’impresa di successo affossando il parassitismo industriale? Questi aiuti, urgentemente chiesti, non potrebbero paradossalmente falsare il corso imponderabile della “mano invisibile”? L’intervento pubblico in economia o è ammissibile o non è dato! E se è ammissibile, poco si sposa con le tesi, volutamente estremiste, in ossequio, molto formale, alla scuola di Chicago, o a quella Austriaca, tanto care a Nicola Porro. Ho passato serate memorabili a discutere con Nicola, della necessità (secondo me) che il trasporto pubblico fosse gestito direttamente dallo Stato, forte del principio Einaudiano del “monopolio naturale”, ed è per questo che considero anarcocapitalismo e non liberismo, il concetto di Economia sostenuto da Porro.

Fa sorridere poi il liberismo addomesticato di Francesco Giavazzi, che il 9 giugno sul Corriere scrive: “Il 18 maggio, sei settimane dopo l’approvazione del decreto, in Emilia-Romagna, una regione le cui aziende e le cui banche non sono certo fra le più inefficienti del Paese, su un campione di 2.700 imprese analizzato da Confartigianato, l’80% aveva chiesto il prestito ma solo il 12% lo aveva ottenuto. Il 7 per cento sconfortate avevano ritirato la domanda”. Bastava farsi una chiacchierata, con qualche intelligente dirigente di banca, per scoprire che molte aziende con capitali irrisori ed un fatturato pre-Covid a volte inferiore dell’importo stesso richiesta in prestito, si sono fatte avanti in massa, tutte convinte di vivere nel paese del bengodi. Fare l’imprenditore è una cosa seria, non ci si può improvvisare! Un imprenditore serio non si reca in banca come se stesse andando in sala bingo, chiedendo a prestito un importo, ben sapendo che non è proporzionato al suo volume d’affari.

Per chi, come noi, ha da sempre una visione meno ideologica del libero mercato, condivide, oggi, la necessità di un aiuto, alle imprese e ai cittadini, in un momento difficile. Nella convinzione che il compito di uno Stato sia quello di assistere i cittadini, e che, esattamente come dicevano gli idoli dei neoliberisti, non esistono ideologie o regole assolute in Economia, se non quei principi, chiaramente indicati dai nostri Maggiori, come Luigi Einaudi ed Ernesto Rossi, del quale, vale la pena di ricordare, come fosse convinto teorico di nazionalizzazioni: Energia e Siderurgia, due fra tutte. Perché l’assolutismo e l’ideologia, sono temi più avvezzi ai dispotismi del secolo scorso che al metodo liberale. Regolare il mercato è indispensabile proprio per garantirne la libertà, senza la lotta ai monopoli, di einaudiana memoria, il mercato non sarebbe né libero né efficiente. Regolare, non significa pianificare: l’assenza di regole è solo anarchia.

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