Un poeta non dovrebbe parlare di scienza e di medicina, non è il suo compito, ma nonostante questo, come tutti, il poeta può porsi domande. Per esempio…

È chiaro che trovare e testare un vaccino efficace contro un virus fino a ieri sconosciuto è un processo estremamente lungo e complesso, almeno a voler seguire i protocolli stabiliti dalla comunità scientifica internazionale che, a lume di naso, sono gli unici affidabili. E questo è un dato di fatto inoppugnabile. Non meno complesso, ma probabilmente più fattibile, è sperimentare itinerari di cura che abbiano una qualche efficacia, se non altro nel ridurre il danno provocato dalla patologia.

È il percorso che è stato seguito per una malattia come l’Aids, che non è mai scomparsa, ma che comunque viene contenuta grazie a protocolli terapeutici che non hanno soltanto messo a punto nuovi farmaci antivirali, ma sono stati altrettanto efficaci nell’utilizzare sostanze già conosciute. Il risultato è che la speranza di vita degli ammalati è nettamente migliorata.

Allora perché a me pare che la maggior parte delle energie (e delle speranze) sia stata riservata sinora alla ricerca forsennata di un vaccino e non, intanto, all’individuazione di un protocollo medico abbastanza efficace e in condizione di limitare il danno, di salvare, non tutte, ma molte vite, e soprattutto di non far collassare il sistema sanitario? Certo, di cure miracolose o supposte tali ne abbiamo sentite tante, ma di iniziative organizzate, strutturate, per la messa a punto di un protocollo medico io non ho molte notizie.

Si è trattato, praticamente sempre, dell’iniziativa personale di questo o quel diagnosta. E meno male che abbiamo medici dotati di iniziativa, perché altrimenti – fatta la tara di bufale e abbagli – non avremmo neanche quel poco che abbiamo e che, mi pare evidente, ci permette oggi di curare meglio gli ammalati.

Da questa domanda ne nasce spontaneamente un’altra, anzi due e cioè: come mai non è stata formulata per tempo una diagnosi corretta, e come mai si è deciso, nel bel mezzo di una tempesta sociale e medica provocata da un agente virale sconosciuto, di non effettuare autopsie? L’evidenza, sia statistica che medica, sembra essere che, a fronte di una serie di pareri praticamente unanimi che ci dicono che il virus non è mutato, il numero di pazienti che necessitano della terapia intensiva è radicalmente diminuito.

Ciò mi pare dipenda non solo e non tanto dalla diminuzione dei casi di contagio, ma anche dall’acquisizione di una più corretta diagnosi delle cause e delle conseguenze del virus, che non si limita a provocare polmoniti, ma che, a monte, causa trombi e vasculiti, a loro volta responsabili del collasso polmonare. Le conclusioni infauste che si verificavano prima sono sempre più rare e questo dipende probabilmente dal fatto che oggi ne sappiamo di più su come questo virus attacchi il nostro organismo.

Se ne sappiamo di più, però, è, in parte rilevante, dovuto al fatto che, persino violando qualche norma, dei medici hanno deciso di effettuare delle autopsie sui corpi di ammalati uccisi dal Covid-19. D’altra parte cosa c’è di strano in questo? Non è questo che fa un buon diagnosta, se perde un paziente senza aver individuato la causa reale e decisiva della sua morte, sin da tempi pre-galileiani e fino all’ultima serie del Dottor House? Com’è stato possibile allora che le indicazioni del Ministero ne escludessero l’effettuazione?

Da questo, ovviamente, di domanda ne nasce un’altra.

Dato per scontato che il CoVid non è una banale influenza, che le sue conseguenze possono essere ben più rilevanti e che la sua letalità è maggiore, i tassi di mortalità che abbiamo dovuto registrare (quelli direttamente ascrivibili al virus e quelli indotti dal collasso delle strutture sanitarie, costrette ad abbandonare molti altri pazienti affetti da altre patologie) sono tutta farina del sacco Corona, o essi sono anche la conseguenza di una politica e di una organizzazione sanitaria dissennata e vorace, che ha preferito svendere al privato e puntare sui grandi nosocomi, ospedalizzare frotte di anziani, tagliando fin dove si poteva, e anche oltre, quella che ho scoperto chiamarsi medicina di prossimità?

Infine la quinta e ultima delle domande indiscrete che mi sono venute in mente.

Life is a killer, diceva il poeta americano John Giorno: la vita uccide. Ed è arduo dargli torto. Detto questo, che ovviamente non significa non far nulla per proteggere la salute propria e degli altri, che senso ha questo ostinato perseguire il raggiungimento di un inesistente ‘rischio zero’ per poter ritenere che sia giunto infine il momento di tornare a fare una vita normale? Fin dove il gioco di non prenderci alcun rischio pur di salvarci la pelle ed evitare una qualsiasi patologia possibile, vale la candela di rinunciare a molte delle nostre libertà e dei nostri diritti?

Ma su questo fronte c’è una buona notizia, l’unica: le manifestazioni americane successive all’omicidio di Floyd.

La paura del contagio non ha bloccato quelle sacrosante proteste, forse perché, se decidi di andare in piazza cosciente di poter essere barbaramente picchiato, accecato da una pallottola di gomma, o spinto a terra con brutalità tale da spaccarti il cranio, l’eventualità e persino la probabilità di beccarti il Carogna-Virus passano in secondo piano. E questa è davvero un’ottima notizia, perché significa che il ricatto virocratico funziona sin là. Significa che, per fortuna, per molti di noi, la nuda vita, da sola, non vale e che dunque Agamben ha oggi una piccola, modesta ragione per essere un po’ meno preoccupato. Ed anche noi.

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