Soglia minima di fatturato di 750 milioni di euro, evidenze su un limitato numero di Paesi e documentazione riservata alle autorità fiscali. Sono questi i nodi su cui da anni si gioca la partita del country-by-country reporting, ovvero la rendicontazione Paese per Paese delle attività delle multinazionali. Compresi i profitti realizzati e le tasse pagate. Questioni che, nonostante le tante richieste di passi in avanti negli ultimi anni da parte di legislatori e organizzazioni non governative, continuano a mantenere opache le attività della maggior parte delle più grandi società attive nel mondo. In Italia il tema è venuto alla ribalta dopo che Fiat Chrysler ha deciso di chiedere un prestito con garanzia statale – che ora Intesa si appresta a concedere – e il ministro Giuseppe Provenzano ha auspicato che come “atto di buona volontà” perlomeno renda pubblici quei rendiconti. Il gruppo, come gli altri big, già li presenta all’Agenzia delle Entrate, ma vengono rigorosamente tenuti riservati.

Le multinazionali e il nodo trasparenza – Sede legale in un Paese, sede fiscale in un altro, impianti produttivi in continenti diversi, reti di distribuzione e canali di vendita globali. Una multinazionale spesso si traduce in una complessa ragnatela di succursali e sussidiarie, con nomi diversi e talvolta estremi nei paradisi fiscali. Le diverse sedi nel globo permettono di bilanciare la distribuzione dei profitti, trasferendoli dai Paesi con un regime meno vantaggioso a quelli che offrono condizioni più favorevoli. E quando viene costruita la reportistica annuale, tutte le singole voci si confondono impedendo una adeguata ricostruzione di ciò che è avvenuto nei singoli nodi della ragnatela.

2015: Ocse e G20 riconoscono il problema – La consapevolezza della necessità di affrontare questo problema è stata per la prima volta affermata dai governi in occasione del G20 del 2012 in Messico, che ha portato al progetto congiunto Ocse e G20 di ottobre 2015. Ministri delle finanze e governatori delle banche centrali riuniti a Lima, Perù, approvarono un pacchetto di misure in vista di una riforma delle regole fiscali internazionali: il cosiddetto progetto Beps, Base erosion and profit shifting, vale a dire “erosione di base fiscale e trasferimento dei profitti”. Secondo l’analisi dell’Ocse, poi ripresa dal Servizio Bilancio del Senato, questa pratica “sottrae ingenti risorse alle economie nazionali che potrebbero essere impiegate per sostenere la crescita, contribuire ai piani di consolidamento post-crisi, migliorare le politiche di welfare delle economie in via di sviluppo e, più in generale, creare sistemi fiscali più equi”. Secondo le stime le perdite sarebbero state comprese tra i 100 e i 240 miliardi di dollari all’anno, ovvero tra il 4 e il 10 per cento del gettito. Tra gli accordi del 2015 in sede Ocse, si decise per un nuovo aggiornamento nel 2020: a causa della pandemia, l’incontro è dapprima slittato e si è poi tenuto online il 12 e 13 maggio.

2016: l’Ue dice sì alla rendicontazione. Ma lascia fuori il 90% delle aziende… – In questo clima il 25 maggio 2016 il Consiglio dell’Unione Europea adottò le prime norme sulla rendicontazione di informazioni di natura fiscale, da parte delle società multinazionali, e sullo scambio di tali informazioni tra gli Stati membri. La nuova direttiva 881/2016 faceva parte del pacchetto di proposte presentato dalla Commissione nel gennaio 2016 per rafforzare le norme contro l’elusione fiscale, sulla base delle raccomandazioni Ocse dell’anno precedente, e richiedevano una rendicontazione Paese per Paese delle multinazionali con ricavi consolidati complessivi di almeno 750 milioni di euro, da fornire esclusivamente alle autorità fiscali. Una misura che, secondo il vicepresidente dell’Unione Valdis Dombrovskis avrebbe coinvolto all’incirca 6.500 società. Ma che, dal punto di vista della Ong Oxfam, escludeva di fatto una quota compresa tra l’85 e il 90% delle multinazionali, secondo le stime della stessa Ocse. Nella Direttiva Contabile europea la soglia del fatturato per le grandi imprese si attesta infatti a 40 milioni di euro. Ma non era l’unica critica.

…e consente di omettere “informazioni indispensabili” – Oxfam all’epoca aveva rilevato anche che l’obbligo per le multinazionali della rendicontazione country-by-country veniva proposto solo per i Paesi Ue e per le attività condotte nei paradisi fiscali, i cui criteri di definizione sarebbero stati oggetto di ulteriore discussione tra gli Stati membri. Mentre per tutti gli altri Paesi extra-Ue sarebbe stato sufficiente solo un unico dato aggregato. Inoltre la Ong evidenziava che le informazioni richieste alle multinazionali non sarebbero state esaustive. “La proposta della Commissione predispone un insieme limitato di reporting information, lasciando fuori dal perimetro di rendicontazione elementi chiave come la lista delle sussidiarie, le vendite, gli asset e i sussidi pubblici ricevuti dalle compagnie. Informazioni indispensabili per stabilire con certezza il livello effettivo di tassazione delle imprese e accertare se le imposte vengono pagate laddove gli utili sono a tutti gli effetti generati”.

2017: il Parlamento Ue crede che i report siano pubblici – Più volte in questi anni il Parlamento Europeo si è espresso a favore di una maggiore trasparenza. Con il voto del 4 luglio 2017 l’assemblea ha avallato a larga maggioranza la pubblicazione dei dati societari disaggregati per tutti i Paesi, e non solo per Paesi membri e quelli della futura blacklist. Nella risoluzione del 26 marzo 2019, invece, il legislatore comunitario ha accolto nuovamente con favore l’introduzione della rendicontazione per Paese, ma ha ricordato anche di aver chiesto di ampliare l’ambito del reporting, esortando il Consiglio a giungere a un accordo per una rendicontazione pubblica, dunque non solo a favore delle autorità. In particolare, il Parlamento ha sottolineato che “il controllo pubblico è utile per i ricercatori, i giornalisti d’inchiesta, gli investitori e le altre parti interessate a valutare adeguatamente i rischi, le passività e le opportunità per stimolare un’imprenditorialità equa”, sottolineando inoltre che analoghe disposizioni sono già previste per il settore bancario e per le industrie estrattive e forestali.

2019: il Consiglio competitività si spacca sulla trasparenza. Contrari 12 Paesi – Nonostante le ripetute prese di posizione del legislatore, il 28 novembre 2019 si è registrata una brusca doccia fredda in sede Ue. Il Consiglio “Competitività”, infatti, non è riuscito a trovare la maggioranza qualificata di 16 Paesi nella votazione che avrebbe potuto rendere pubbliche le informazioni dei report country-by-country. Dei 28 Paesi dell’Unione, 14 (Belgio, Bulgaria, Danimarca, Finlandia, Francia, Grecia, Italia, Lituania, Polonia, Portogallo, Olanda, Romania, Slovacchia e Spagna) hanno votato a favore della proposta, mentre 12 (Austria, Croazia, Cipro, Estonia, Irlanda, Lettonia, Lussemburgo, Malta, Repubblica Ceca, Slovenia, Svezia e Ungheria) si sono espressi contro. Mentre la Germania ha deciso di astenersi e il Regno Unito di non votare. Prima dell’incontro, inoltre, alcuni tra i Paesi contrari – Cipro, Estonia, Lettonia, Lussemburgo, Malta, Repubblica Ceca, Slovenia, Svezia e Ungheria – si sono espressi anche contro la scelta della sede di discussione: il Consiglio “Competitività”, che riunisce i ministri competenti in materia di commercio, economia, industria, ricerca e innovazione e spazio, non sarebbe stata “l’appropriata configurazione del Consiglio per adottare un approccio generale su questa proposta”. “È un giorno amaro per la giustizia fiscale”, le parole di Sven Giegold, portavoce di Alleanza 90/I Verdi al Parlamento Europeo. “Una minoranza ostruzionista di Stati membri ha impedito più giustizia fiscale in Europa e si è schierata con i paradisi fiscali”.

Maggio 2020: le aziende lamentano “difficoltà e costi” – Arriviamo a oggi. La scorsa settimana circa 200 tra aziende, ong e autorità fiscali si sono riunite nella conferenza virtuale tenuta dall’Ocse. Se da una parte si è convenuto sui limiti dell’attuale sistema di reporting e della poca chiarezza dell’uso che ne viene fatto dalle amministrazioni fiscali, dall’altra le posizioni sono rimaste distanti e le aziende hanno ribadito le difficoltà e i costi che avrebbe un reporting molto più dettagliato. L’Ocse, tenendo “seriamente” in considerazione queste rivendicazioni, ha dichiarato che nel caso in cui venissero promossi dei cambiamenti – ma solo in funzione della valutazione del rischio – nella richiesta di reportistica, verrà concesso tempo sufficiente sia alle imprese che alle amministrazioni per implementare la nuova documentazione.

Le strade possibili: volontarietà o decisioni a livello nazionale – La strada della multilateralità resta in salita, e come suggerito recentemente dall’Unctad – la Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo – quelle più agevoli potrebbero essere altre tre. Innanzitutto, la volontarietà. Sia grandi investitori che organizzazioni istituzionali come il Global Reporting Initiative spingono per nuovi standard di reporting, e alcune multinazionali come Eni (dei contenuti del suo report si è occupato l’ultimo numero del mensile Fq Millennium diretto da Peter Gomez) e Vodafone hanno già proceduto a pubblicare la propria rendicontazione Paese per Paese. La seconda strada è quella dell’unilateralità. Vale a dire agire a livello nazionale Il Parlamento francese, per esempio, tempo fa si era espresso per l’obbligatorietà della pubblicazione, sebbene poi il governo con un tecnicismo abbia rigettato l’intenzione dell’assemblea. La terza strada riporta invece alle stesse Nazioni Unite: il suo gruppo di lavoro International standards of accounting and reporting potrebbe sviluppare uno standard pubblico obbligatorio.

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