Raccontare un gol è come voler raccontare un amplesso. Le parole sottraggono invece di aggiungere, depistano invece di spiegare, costruiscono sovrastrutture che ne zavorrano l’essenza. E non potrebbe essere altrimenti. Perché ogni sforzo per trasformare l’irrazionale nel suo contrario è destinato diventare goffo e inappropriato. Perché la bellezza si contempla, non si racconta. Un postulato che è diventato legge ferrea nella serata del 15 maggio 2002. Real Madrid contro Bayer Leverkusen. Si gioca all’Hampden Park di Glasgow, il tempio della Nazionale scozzese. E in palio c’è la Champions League.

Lungo tutta l’Europa cominciano a circolare le stesse frasi. E tutte pescano a piene mani nella retorica. Davide contro Golia, la forza del portafogli contro quella delle idee. Ancora e ancora e ancora. Un copia e incolla in lingue diverse che non rende giustizia a nessuno. Soprattutto ai tedeschi. Perché quel Bayer è una squadra dal grande talento e dall’incredibile propensione al suicidio sportivo. Soltanto una decina di giorni prima le aspirine erano riuscite a perdere la Bundesliga. Nonostante i cinque punti di vantaggio sul Borussia Dortmund a tre giornate dalla fine. Sembrava tutto fatto. Solo che poi era arrivata la sconfitta casalinga contro il Werder Brema e ai ragazzi di Klaus Toppmöller avevano iniziato a tremare le gambe.

L’incubo si era ripetuto anche una settimana più tardi, quando il Bayer aveva perso nello stadio del Norimberga. Il Dortmund era volato in testa. Più uno a 90’ dalla fine del campionato. E a niente era servito il successo sul gong contro l’Hertha Berlino. Il Meisterschale era finito nella bacheca dei gialloneri, mentre il Leverkusen si era dovuto accontentare dei complimenti. Un copione che si era ripetuto identico a se stesso anche quattro giorni prima della finale di Champions League. L’11 maggio la squadra di Toppmoller aveva affrontato lo Schalke 04 sul neutro dell’Olympiastadion di Berlino. Stavolta si giocava per la Coppa di Germania. Il primo tempo era finito 1-1. Poi il Bayer era stato travolto. E il tabellone aveva sentenziato 2-4 per lo Schalke. Un’altra occasione persa, un’altra mazzata per il morale dei tedeschi.

Così la sfida di Hampden Park diventa a forte rischio psicodramma. Dopo appena 8’ il Real è già avanti grazie a Raul. Ma dura poco. Il Bayer è vivo e non ha nessuna intenzione di lasciarsi sfuggire un altro trofeo. Al 12’ Lucio pareggia, si alza la maglietta e mostra una t-shirt con scritto Jesus I Love You. Il Leverkusen non arretra, anzi, gioca bene. Almeno fino al 45’, quando Solari spara un pallone in avanti nella speranza che possa finire sui piedi di Roberto Carlos. “Il lancio di Santiago è stato lungo, come se avesse mirato fuori dallo stadio. È stato pessimo – ha raccontato il brasiliano al sito della Uefa – è stato un lancio alto sul mio marcatore diretto alto due metri. Poi la palla è passata e io ho corso più veloce di lui. Se avesse allungato il piede, mi sarei infortunato ma per fortuna andavo veloce”.

Il brasiliano non ha molte alternative. Stoppare il pallone significa regalarlo agli avversari. Così osserva la sfera rimbalzare mentre nella periferia del suo campo visivo si materializza una macchia bianca. È il segnale che deve crossare in mezzo. “La gente mi dice ‘che passaggio incredibile’ – ha aggiunto il terzino sinistro – e io rispondo ‘incredibile? È stato semplicemente perfetto!’ Nel punto giusto, all’altezza giusta e sul sinistro di Zizou che non avrebbe potuto colpirla di destro da lì”. In realtà il cross non è poi così perfetto. Il pallone prende una traiettoria particolare, arcuata, altissima, lenta, sembra quasi spiccare il volo e perdersi nel cielo di Glasgow. Solo che quel lancio imbizzarrito pesca proprio Zidane al limite dell’area.

Qualsiasi altro giocatore l’avrebbe stoppata. Qualsiasi altro giocatore si sarebbe andato a schiantare contro il muro composto da Ballack, Lucio e Živković. Non Zidane. Il francese osserva la parabola del pallone e decide di calciare al volo. Di sinistro. Per qualche frazione di secondo resta fermo, immobile, con gamba e braccio che ruotano e spariscono dietro alla sua schiena. Poi, quando il pallone si avvicina, Zidane si coordina e calcia al volo come se fosse caricato a molla. Il movimento è secco e potente, ma allo stesso tempo elegante, aggraziato. Nel momento stesso in cui sente il cuoio del pallone toccare la sua scarpa, Zizou sa già dove andrà a finire. Lo sanno tutti. Anche Butt, che prova a lanciarsi ma che potrà solo raccogliere il pallone in fondo al sacco. Zidane ha trasformato un gesto atletico impossibile per la maggioranza degli esseri umani nel gol che vale la nona Champions League del Real Madrid.

Un gesto tecnico pazzesco, realizzato con quello che sulla carta dovrebbe essere il suo piede debole, e che recentemente è stato votato come il più bello della storia della Champions. Al resto ci pensa Casillas, subentrato a Cesar al 68’. Nell’ultimo quarto d’ora il portiere compie almeno tre interventi prodigiosi. Porta inviolata, Champions in bacheca, mentre il Bayer mette a segno un triplete al contrario. A fine partita Toppmoller si presenta davanti alle telecamere per quello che è diventato un triste rituale. “È incredibilmente doloroso finire la stagione senza vincere niente – dice – avremmo potuto passare tutta la vita a provare schemi in allenamento, ma poi in campo succede qualcosa che non puoi controllare. E in questo caso è stato il gol di Zidane”. Una rete iconica, che oggi è diventata maggiorenne e che finirà per stamparsi nella memoria collettiva. Soprattutto in quella di un giovanissimo Eden Hazard. “Il primo ricordo che ho del calcio? È stato il tiro al volo di Zidane contro il Bayer”.

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