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di Elisa Zaccagnini

1° maggio. Festa dei Lavoratori. A malincuore, penso a due parole: flessibilità e precarietà. In seguito all’introduzione di numerose categorie contrattuali flessibili, in Italia da anni il precariato fa parte della realtà della maggior parte dei lavoratori appartenenti alle nuove generazioni ed è ormai raro che un lavoratore venga assunto con un contratto subordinato a tempo indeterminato, che dovrebbe, tuttavia, rappresentare “la forma comune dei rapporti di lavoro” (dlgs 368/2001 in attuazione della direttiva 1999/70/CE); non dimenticando che, da qualche anno, anche le tutele derivanti da quest’ultima categoria contrattuale sono state largamente inficiate.

Ma andiamo con ordine. Durante il governo Berlusconi, nel 2003 la legge Biagi ha introdotto l’utilizzo di circa 40 nuove figure contrattuali: a tempo determinato, a chiamata, part-time, etc. Ed è solo l’inizio. La legge 92/2012, più comunemente conosciuta come legge Fornero, ha introdotto la possibilità di stipulare per un massimo di 12 mesi un contratto a termine a-causale, ovvero privo delle “ragioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive” che ne dovrebbero giustificare la temporaneità. Ha poi modificato per la prima volta l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori: il reintegro del lavoratore ingiustamente licenziato può avvenire sostanzialmente solo in caso di licenziamento discriminatorio, peraltro, aggiungerei, difficilmente dimostrabile in costanza di processo.

Si arriva così al governo Renzi e alla legge 78/2014 o Jobs Act, dove si è andati ben oltre la riforma Fornero, conferendo al datore di lavoro la possibilità di stipulare un contratto a termine senza casuale rinnovabile per ben 36 mesi. Per di più, viene introdotto il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti: in caso di licenziamento illegittimo, la reintegra, ipotesi pressoché residuale, viene sostituita con un’indennità risarcitoria che va da un minimo di 4 mensilità ad un massimo 24, calcolate sull’anzianità di servizio del lavoratore. Oltre il danno la beffa: un lavoratore ingiustamente licenziato non solo non viene reintegrato ma percepisce un risarcimento irrisorio, di cui il calcolo è stato del resto dichiarato incostituzionale dalla Consulta ed in violazione dell’art. 24 della Carta Sociale dal Comitato Sociale Europeo.

Insomma, a fronte di condizioni così favorevoli, il datore di lavoro ha tutta la convenienza a stipulare un contratto a tempo indeterminato: oltre a poter usufruire di contributi statali, può licenziare il lavoratore quando vuole incorrendo in conseguenze sopportabili riconducibili ad una remota possibilità di reintegra ed un risarcimento a costi ridotti. Dal canto suo, il lavoratore assunto con contratto a tempo indeterminato, nei fatti un vero e proprio precario, può essere licenziato ingiustamente senza essere reintegrato percependo un risarcimento esiguo.

A mio avviso, ha preso piede un vero e proprio smantellamento dell’articolo 18 mediante una facilitazione dei licenziamenti ed una “flessibilizzazione” del contratto a tempo indeterminato. Ha preso forma un rapporto inversamente proporzionale tra precariato e tutele a favore dei lavoratori: incrementando il primo, diminuiscono le seconde ed il lavoratore si trova a fare i conti con difficoltà economiche e sociali quali stipendi bassi, pensioni evanescenti, un’ardua progettualità futura da un punto di vista esistenziale, familiare e professionale.

Un passo avanti nel ripristino delle garanzie del lavoratore è stato fatto durante il governo Conte I dalla legge 96/2018 – Decreto Dignità – secondo cui un contratto a termine può durare al massimo 24 mesi e può essere a-causale per non più di 12. Inoltre, in caso di licenziamento illegittimo l’indennità sale da 6 a 36 mensilità.

Tuttavia, a mio avviso, non basta. Bisogna fare di più, magari partendo dalla reintroduzione della tutela reale in caso di licenziamento illegittimo ex articolo 18 Statuto dei Lavoratori e dall’introduzione del salario minimo legale.

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