di Mattia Musio

Se cerchiamo il sostantivo leggerezza su un motore di ricerca una delle prime definizioni è questa: “agilità o scioltezza in quanto riferibile a dote innata di delicatezza o anche a un grado notevole di abilità acquisita”. E come spiegarla meglio?

La leggerezza è delicatezza, accarezzare ogni oggetto invece che toccarlo, quasi non poggiare i piedi al suolo durante il movimento. Un termine che abbiamo compreso per contrasto in questo periodo di pesantezza, di reclusione, di poca libertà.

Ci siamo scoperti rozzi, sgraziati, pigri.

Come soddisfare allora questa necessità di leggerezza, di bellezza? Ci sono stati momenti in cui, nello sport, è stato sublimato il concetto di leggerezza, di perfezione del movimento. E anche se quel termine spesso scomodo, “perfezione”, è una tappa che pochissimi sono stati capaci di raggiungere, forse possiamo riempirci gli occhi di questi istanti che hanno cambiato “il nostro modo di vedere lo sport”. Perché proprio in questa quarantena abbiamo capito la necessità di muoverci liberamente, di praticare la bellezza dell’attività fisica, dell’espressione del corpo.

E allora volare indietro a questi tre momenti di arte, forse, può alleviare questa nostra condizione di stasi, perché come diceva Calvino: “Che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore”.

Cambiare il nostro modo di vedere uno sport è opera di pochi, pochissimi.

Pensare a qualcosa che, dopo il passaggio di un atleta, cambia completamente forma di fronte ai nostri occhi. Uno di questi atleti è Muhammad Ali, che della leggerezza ha fatto una dottrina, riassunta in quel motto diventato leggenda: “Vola come una farfalla, pungi come un’ape”.

Nel match contro Cleveland Williams, del 1966, possiamo capire come la definizione di boxe cambiò totalmente dopo l’arrivo nella scena di quello che è stato, con pochi dubbi, il più grande sportivo di sempre. I guantoni diventano, paradossalmente, un’arma secondaria: a far vincere gli incontri ad Ali sono i piedi, i più veloci mai visti su un ring.

Pochi minuti di quella che, secondo gli esperti, è la sua prestazione migliore di tutta la carriera [link].

La perfezione non come obbiettivo, ma semplicemente come conseguenza. Nel 1976 le Olimpiadi di Montreal diventano il palco per la prestazione di ginnastica più famosa della storia: Nadia Comaneci, allora quattordicenne, sfida la gravità e ne esce vincitrice. Minuti in cui vola a testa in giù con un controllo di ogni fibra di muscolo che, ancora oggi, sembra impossibili replicare.

Dopo questi minuti di prestazione estetica, ancor prima che sportiva, il tabellone segnerà “1.00”: la doppia cifra per indicare un esercizio senza errori non era mai stata utilizzata, prima di allora. Dopo Nadia i tabelloni potranno finalmente indicare correttamente il “10”.

Dopo Nadia, perché prima mai nessuno aveva toccato la perfezione con mano.

L’esibizione che ha cambiato la storia [link].

Slam Dunk Contest del 1988. Dominic Wilkins fa da sparring partner ad un evento diventato icona sportiva, mito, brand. Micheal Jordan salta per dei secondi che paiono minuti, per dei metri che paiono miglia. Saltare della lunetta e atterrare dopo il ferro, come se il tabellone non fosse il punto di arrivo ma un ostacolo verso un salto che forse avrebbe potuto portare MJ direttamente fuori dal Chicago Stadium. Jordan rimane immobile, restando in aria, già: “Air Jordan”.

Il concetto di aria in fondo era (e resta) l’unico per spiegare correttamente ciò che scorreva nelle vene del numero 23.

Prima del brand, l’evento scatenante [link].

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