Un mese. Un mese nell’arco di una vita è un niente. Un mese chiusi in casa, con l’unica uscita settimanale per andare al supermercato, è qualcosa di più. Si inizia incendiari, pieni di propositi in attesa di una visione, un guizzo che cambi il destino. E si finisce pompieri, cercando tra cassetti polverosi le foto anni 90 da postare su Facebook, annoiati e disorientati. Maria può attendere.

Dopo un’overdose da connessione internet che neanche Layne Staley con l’eroina, devo ammettere che questa quarantena non ci ha reso migliori, solo più narcisisti. E se per ora la vita che possiamo vivere è solo quella per interposta social, dopo la sbronza iniziale in cui all’inizio ci sembrava bello anche Steve Buscemi, il giorno dopo lascia solo cenere e mal di testa.

E la sensazione che, nel gigantesco set in stile hollywoodiano alla Truman Show dove stiamo transitando, siano comparsi d’improvviso supereroi di cui non si avvertiva il bisogno. I Massimo Bottura e Iginio Massari wannabe. Quelli che adesso siamo tutti cuochi e pasticceri, che rischiano il tunnel carpale nel postare a nastro foto di focacce con lievitazioni tantriche che manco Sting e Trudie e brioches appena sfornate cosparse di semi dai nomi esotici. Gente che non accendeva un fornello da Italia 90.

1. Gli yogi dello spirito che postano foto di fiori e perle di saggezza su come, grazie a questa quarantena, abbiano ritrovato se stessi. Per approfondire questa presa di coscienza gli proporrei di trascorrere una giornata a casa di una famiglia italiana qualsiasi, con un paio di figli in età scolare. Sulla poesia della vita reale solo Pier Paolo Pasolini ci avrebbe visto qualcosa di mistico.

2. I pr della cultura online. Che mi fanno fare un tour virtuale alla National Gallery, mi fanno leggere i libri della World Digital Library, mi dicono che musica ascoltare, mi propongono un mese di cinema d’essai partendo con una retrospettiva su Wilhelm Murnau. A tutti piace fare i fenomeni (spararla grossa magari dopo aver controllato su Wikipedia), ma quando si tratta di scegliere è Pierino tutta la vita.

3. I vati della supercazzola. Quelli che per loro bisogna sviluppare l’immunità di gregge, che è colpa del pipistrello o del 5G. Quelli che, insomma: “Ricordati che devi morire”. Ecco, mò me lo segno.

4. Quelli dell’Italia ti lovvo. Pipponi strappalacrime sulla bellezza e la forza dell’Italia, conditi di macchiette tra il melenso e lo stereotipo ridicolo, arrivati dall’estero. Salvo poi, a emergenza finita, catalogarci sempre come i soliti italiani pizza e mandolino.

5. I bicchiere mezzopienisti. Quelli del #andràtuttobene e degli arcobaleni. Nessuno sa come andrà a finire e chi ne intuisce l’epilogo tace. Dire che andrà tutto bene, usando come baluardo la fiducia cieca dei bambini negli adulti, è mentirgli due volte condendo il cianuro con un cucchiaio di zucchero. Perché come ci dicevano da piccoli: è meglio una brutta verità che una bella bugia.

6. Le pronipoti agguerrite di Jane Fonda. Che ti propongono yoga online gratis per un mese, ti promettono due chiappe alla JLo e addominali di acciaio. Poi quando ti strappi il deltoide l’app non risponde più.

7. I cheerleader della scuola online. Salvo poi aprire 122 account diversi. Perché per un prof usi Skype. Per l’altro niente funziona meglio di Zoom. Quella di inglese mette i compiti su Cloudschooling, ma quella di francese su Whatsapp. Il prof di tecnica preferisce Classe viva e italiano pure, solo che lei li mette in un’altra videata. E visto che con tutto questo studio studenti e professori sono stremati dallo sforzo digitale, a tutti un meritato riposo per le vacanza di Pasqua.

8. Le mamme. Che restano fregate anche in quarantena, che non si salvano neppure adesso. Che pur di restare ancorate all’effigie della regina dell’istruzione, stoiche, rischiano il tracollo mentale nel seguire la didattica a distanza. E il bello è che i mariti sono a casa.

9. I socialite virtuali. È vero, all’inizio della quarantena sembrava la furbata del secolo. Tutti davanti al telefono a fare aperitivi di ore scolando bottiglie buone che risorgevano dalla cantina. Dopo il quarto aperitivo ti accorgi che i bambini hanno fame, tu sei mezzo sbronzo, e per cena si mangiano cornflakes.

10. Te stesso. Perché quando non hai più una vita, il rapporto con te stesso si fa serrato. E l’autoreferenzialità logora chi non ce l’ha. A meno che non si nasca Sgarbi o Salvini.

11. I resistenti de papel. Quelli per cui “siamo in guerra” e bisogna resistere. Intanto, nel dubbio, svaligiano i supermercati e guardano Netflix sul divano. E se davvero fossero in guerra resisterebbero a lungo quanto un gatto in tangenziale. La resistenza lasciatela agli infermieri e ai dottori, voi cercate di rompere i coglioni il meno possibile.

Dopo questo sfogo logorroico, di cui chiedo venia, l’unica cosa che veramente voglio non è essere intrattenuta 24 ore al giorno, farmi dire cosa trattenere spiritualmente da questa esperienza quando sarà alle spalle, o immaginare quale sarà la nuova normalità che il mondo dovrà affrontare. L’unica cosa che voglio è il contatto umano con altre persone, riavere uno straccio di vita anche se non sarà perfetta e nemmeno uguale a prima. Ma pare che nessuno, nel web, sia in grado di offrirmela.

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