Due settimane fa ero certa che la bolla del Coronavirus sarebbe implosa come un un coito interrotto. Una serie di servizi giornalistici scappati di mano, un’eco mediatica innescante la paranoia sui social, e poi l’attenzione avrebbe virato verso qualcos’altro.

Oggi non è più così. E pare che, davanti a noi, sia lungo il periodo dentro il quale dovremo convivere con uno sgradevole intruso. Continuo a non avere troppa paura del virus perché, nonostante l’attenzione sia tutta verso chi muore o viene ricoverato in terapia intensiva, se anche dovesse contagiarmi forse su di me non avrebbe conseguenze gravi. Quello di cui ho paura non è solo il mio presente da potenziale candidata al contagio di un virus pericoloso, ma anche e soprattutto il mio prossimo futuro lavorativo, uguale a tutti quelli che campano di turismo.

La presa di coscienza è stata fulminea, giusto il tempo che negli Usa il Cdc decretasse lo stato di allerta a livello 4, che le maggiori compagnie aeree americane stoppassero i voli per Milano e che le università ritirassero i loro studenti in Italia. Da quel punto le cancellazioni sono piovute come le locuste che stanno sorvolando l’Africa.

Abitando in un paese ligure che vive quasi esclusivamente di turismo il mio stato d’animo è comune a moltissimi altri. La gente si aggira per le strade con un’aria mogia, quasi circospetta, dovunque vai – a cena con gli amici, in spiaggia o al supermercato – “coronavirus” è il nuovo trending topic. Non si parla d’altro. La stagione, sicuramente l’inizio, è compromessa.

Nel mio nucleo famigliare lavoriamo entrambi nel turismo, l’85% dei miei clienti sono americani. Ad oggi, e sicuramente per i prossimi due mesi, non prevedo grandi masse di stranieri arrivare nelle Cinque Terre. Se ci va di lusso, da giugno qualcosa riprenderà.

Ho sempre vissuto le tempeste come una bonaccia, e ora cerco di mantenermi calma facendo quello che a noi uomini moderni riesce più difficile: vivere il presente, giorno per giorno. Nel frattempo, ho dovuto mettere mano al rendiconto famigliare. Non ci è voluto molto dal momento che le voci sono tutte in uscita.

In un momento di incertezza per il futuro la prima cosa da togliere è il superfluo, tutte quelle spese che sono vezzi, sfizi, ma che rendono piacevole la vita, dandole quel tocco di frivolezza sinonimo di leggerezza.

Quando non sai quando percepirai il tuo prossimo stipendio, andare in palestra, imparare a suonare la chitarra, comprare un paio di scarpe nuove o una bottiglia di vino francese sembrano davvero un sovrappiù. Su cosa sia superfluo e necessario si potrebbero aprire parentesi tonde e quadre, ma resta sempre una percezione soggettiva. Quello che per me è futile per un altro è vitale, e nessuno può darne un giudizio morale.

Resta però il fatto che a fine mese, in una famiglia di cinque persone, bisogna far quadrare il bilancio. E con una bottiglia di Chablis non ci paghi la spesa al Conad. In questo contesto vivere diventa in qualche modo un ritorno alle origini, agli anni squattrinati di inizio carriera. Diventa fondamentale riconsiderare l’eccedenza, che è quasi sempre legata al materiale, a quelle cose tangibili di cui in fondo non abbiamo così bisogno. Sì, la scarpa nuova mi fa stare bene, ma è un po’ un “piacere-sveltina”: dura poco.

Molti di noi sono di fronte a quello che potrebbe essere un riparametrare coatto delle proprie abitudini. Se crollano le certezze, la propria creatività e flessibilità può essere quello che fa stare a galla per intercettare un percorso alternativo, laddove la strada si è interrotta.

Quello che sta accadendo non è un male assoluto. E anche se è tendenzioso pensare di vedere in chiave filosofica quello che sta per succederci, questo periodo di “quarantena” economica potrebbe trasformarsi in un’occasione per guardare con occhi diversi alla nostra vita. Apprezzarne il valore senza la bulimia di possedere a tutti i costi. C’è del bello, davvero, in un sacco di cose intorno a noi.

La Liguria, il luogo dove ho scelto di vivere, è di una bellezza struggente, la crisi che sta vivendo non ne offuscherà l’incanto. L’Italia è un paese che ammanta l’occhio di splendore, anche negli angoli più remoti di cui non ci si è mai curati molto. Riscoprirli potrebbe far bene al cuore. La famiglia e i figli (a cui va risparmiato lo strazio di cattedratiche favoline sul virus), gli amici, il gracchiare ruvido di un album sul vinile, un bicchiere di vino fatto come dio comanda, i film in bianco e nero, la gioia nei piccoli gesti, la natura che osserva placida i nostri patemi. Il fatto di essere ancora vivi, sani.

Al netto di quello che ognuno di noi potrà e vorrà fare, da addetta ai lavori credo si debba fare una riflessione sul sistema turismo in Italia. Senza il turismo l’Italia è spacciata, e ora che tocchiamo con mano quanto tempo ci resta prima di dichiararci morti bisognerebbe fare un bagno di umiltà. Il cappuccino pagato dieci volte il suo prezzo a Venezia, la torta di riso finita in Liguria, ma in generale la mancanza di rispetto, empatia e cura di tanti operatori rende gli italiani più vili che vittoriosi. Vincitori forse di una battaglia irrilevante, sicuramente a breve termine. Protagonisti di una parte grottesca e fuori tempo.

Senza il turismo, il Coronavirus ci sembrerà davvero il male minore.

Aggiornato dalla redazione web in data 10 marzo 2020 alle ore 15.56

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