La settimana scorsa abbiamo affrontato il tema della continuità aziendale nelle piccole imprese, sottolineando che è un problema che non riguarda solo la proprietà (i rappresentanti delle due generazioni che originano il cambio), la famiglia e gli amici.

Questa settimana ci occuperemo invece degli attori extra-famiglia che intervengono (o dovrebbero intervenire) nel processo di ricambio generazionale. Gli attori “esterni” che agiscono in ambito aziendale (dirigenti, consulenti e tutti gli altri collaboratori) possono e devono contribuire alla creazione di una visione realistica e approfondita dell’azienda: ciò a beneficio immediato dei protagonisti della successione.

Questi attori dovrebbero essere attentamente ascoltati da entrambi in ordine alle attese dell’evoluzione futura dell’azienda e coinvolti nei tempi e nei modi più opportuni, laddove l’avvento di uno o più successori possa bloccare significativamente le aspettative di carriera e le motivazioni al lavoro di ognuno di essi.

In alcuni casi di successione imprenditoriale impossibile da realizzare in ambito familiare, collaboratori e consulenti possono svolgere un ruolo più attivo rilevando la proprietà dell’azienda o, nel caso di successione traumatica e quindi improvvisa, supportando l’eventuale periodo di interregno. Normalmente questo è l’unico polo da cui, nell’intero processo di successione, possano provenire informazioni aggiuntive sulla gestione aziendale rispetto a quelle già conosciute dai protagonisti. L’unica alternativa può essere rappresentata da clienti e fornitori che possono rilevare l’azienda.

Fatte queste premesse, il ruolo dei consulenti tradizionali non appare ancora pronto ad affrontare, tranne casi eccezionali (significa statisticamente una percentuale bassissima), il fenomeno della successione in azienda. Il consulente deve essere autorevole e meritare la piena fiducia dell’imprenditore e della famiglia comprendendo le diverse esigenze della famiglia e dell’impresa e gli equilibri in gioco. E fin qui ci siamo. Ma il passaggio generazionale non ha regole e soluzioni standardizzate e precostituite. Occorre gestire e coordinare aspetti eterogenei in una soluzione personalizzata e armoniosa. E qui si evidenziano i limiti della consulenza classica.

L’ordinamento giuridico italiano offre diversi strumenti per il passaggio generazionale, ma l’esperienza dimostra che la soluzione del caso concreto richiede spesso l’impiego congiunto ed equilibrato di più strumenti, conciliando la trasmissione della proprietà e la definizione delle regole di corporate governance senza mai perdere di vista la strategia di continuità e crescita dell’impresa.

La strutturazione di un trust o di un patto di famiglia, la stesura di un testamento, la definizione di una carta dei valori della famiglia, la costituzione di comitati di famiglia con relativa condivisione delle regole di funzionamento o la negoziazione di patti parasociali sono esempi di attività che un passaggio generazionale può richiedere unitamente a una razionalizzazione dello schema societario e/o alla scelta dei veicoli societari più adatti.

Ma soprattutto l’attività del consulente dovrebbe essere mirata alla pianificazione (dal punto di vista legale, fiscale, contabile e amministrativo) della successione. Significa mettersi sulla scena e non occupare la casella del suggeritore che, pur fiutando aria di default, non entra direttamente sul tema, ma allestisce e vende servizi-tampone o progetti-ponte.

Una figura fondamentale in questo processo, atipica nel panorama delle piccole imprese, è il consulente direzionale o aziendale, il professionista con competenze specialistiche che riesce ad approcciare ai problemi aziendali in modo sistemico, riuscendo a vedere l’insieme delle dinamiche causa-effetto.

Attenzione, piccoli imprenditori, a non confondere il consulente direzionale con la figura del commercialista. Pur essendo anch’egli un professionista autonomo, copre ruoli e ha competenze molto diverse. Il commercialista è esperto, infatti, di ragioneria, contabilità, fisco, diritto tributario e commerciale. Non potremmo pretendere che il commercialista ci dica, sulla base della analisi della mera contabilità, cosa non va nella nostra azienda. Manca in lui la visione d’insieme dell’impresa che permette al consulente direzionale di guidarla.

La differenza fondamentale è nell’esperienza aziendale che fa del consulente direzionale uno che si è sporcato le mani nelle dinamiche di impresa. Esperienza che il commercialista non ha. Analisi organizzativa, gestione delle risorse umane, marketing, controllo di gestione direzionale, customer satisfaction, gestione della identità visiva dell’azienda sono competenze che vanno vissute quotidianamente in azienda. Non solo sui libri.

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