di Francesco Degli Innocenti*

È meglio usare posate di plastica convenzionale, tipo polistirolo, oppure di plastica biodegradabile, compostabile o di legno? Non stiamo parlando di quando siamo a casa, dove le posate metalliche vanno benissimo, ma delle situazioni di ristorazione collettiva momentanea (evento sportivo, sagra, take-away ecc.) dove sono necessarie soluzioni monouso.

Dal punto di vista ambientale, se si guarda lo stato delle spiagge dopo una mareggiata è facile dire cosa è peggio: la plastica, perché sono di plastica gli oggetti e gli imballaggi che ritroviamo a deturpare gli ambienti naturali. Ma se la domanda è “qual è la posata che posso mettermi tranquillamente in bocca”, la risposta può ribaltarsi. Gli oggetti in plastica destinati al contatto con gli alimenti sono ipernormati in Europa, mentre sull’origine e sulla qualità delle posate in legno o in bambù si entra in una zona grigia, dove è difficile avere risposte inequivocabili.

Attualmente la plastica convenzionale spaventa l’opinione pubblica per il ritrovamento di vasti accumuli in mare. Su questa base è stata creata la direttiva “Sup” sulla plastica monouso, che ha sicuramente una grossa valenza sociale, perché ha il merito di avere sollevato il problema portandolo all’attenzione dell’opinione pubblica europea e mondiale.

Tuttavia sembra che le discussioni in corso siano affette da un equivoco, ossia che l’abbandono incontrollato interessi esclusivamente gli imballaggi di plastica, perché questi sono quelli ritrovati sulle spiagge. Ergo, se proibisco i prodotti monouso di plastica risolvo il problema. Ma l’abbandono incontrollato non interessa solo gli imballaggi in plastica.

C’è una frazione della popolazione che dopo l’uso non esita a gettare i prodotti monouso nell’ambiente circostante. Oggi è la plastica a finire in strada, perché è un materiale molto diffuso, ma un domani se la plastica in alcuni prodotti viene proibita saranno altri materiali a finire dispersi, sulla base delle leggi vigenti. Quindi il problema continuerà con altri materiali.

Tutti i prodotti se scaricati in ambiente costituiscono una potenziale sorgente di contaminazione, la cui magnitudine e natura cambierà a seconda del materiale costitutivo (alluminio, vetro, carta, plastica convenzionale e plastica biodegradabile). Gli imballaggi sono spesso colorati, stampati, contengono additivi (per esempio adesivi) ecc. che possono costituire un rischio chimico (tossicologico) per le specie naturali e anche per l’uomo, potendo entrare nella catena alimentare.

Gli imballaggi in plastica sono recalcitranti alla biodegradazione, e quindi rappresentano un rischio fisico per le specie naturali (dovuto a ingestione, soffocamento, creazione di microplastiche, ecc.). La resistenza alla biodegradazione rende gli oggetti di plastica “visibili”, ma questo non significa che altri imballaggi o prodotti, in quanto “spariscono”, siano innocui quando gettati nell’ambiente.

In un certo senso la plastica, grazie al fatto di essere facilmente percettibile ai sensi, può essere considerata come un “marcatore” della contaminazione marina, anche di quella invisibile ma non per questo meno temibile della contaminazione fisica.

È necessario ora, dopo aver capitalizzato i benefici sociali delle recenti iniziative politiche a livello europeo, elaborare la base scientifica su cui costruire le future azioni di mitigazione. Occorre evitare di scambiare i sintomi per le cause, perché la messa in campo di “cure sintomatiche” può creare dei paradossi, trasferendo il problema del rilascio incontrollato dalla sfera della contaminazione fisica (percepibile dai sensi) a quello della contaminazione chimica (invisibile). Occorre quindi definire i potenziali rischi chimici (ossia di tossicità) e quelli fisici (ossia di persistenza dovuta alla mancanza di biodegradazione) dei diversi materiali e su questa solida base di conoscenza attuare le necessarie azioni di contrasto.

In assenza di questa metrica, la proibizione dei materiali che indignano più facilmente l’opinione pubblica, perché visibili sulle spiagge, sposta il consumo verso prodotti alternativi che possono avere marcate problematiche chimiche, anche se nascoste agli occhi dei consumatori. All’interno di questo quadro metodologico, la biodegradabilità degli imballaggi, qualunque sia la loro natura (cellulosica, plastica, legnosa), deve essere misurata con metodologie oggettive e deve accompagnare la valutazione degli eventuali rischi chimici in modo che tutti gli imballaggi possano ricevere una loro “carta di identità” che chiarisca l’impatto potenziale in caso di abbandono incontrollato.

Altrimenti il rischio è quello di varare velocemente misure politiche “populiste” (perché soddisfano con una terapia sintomatica la pressione sociale) e di danneggiare interi comparti industriali innovativi, senza nemmeno il vantaggio di ottenere miglioramenti ambientali verificabili.

*responsabile di Ecoproducts e comunicazione ambientale di Novamont

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