di Mattia Musio

Prima di iniziare, è giusto mettere in chiaro una cosa. Ci sono tre tennisti che sono i più amati dagli stadi di tutto il mondo: Federer, Nadal e chi gioca contro Djokovic.

Il serbo raccoglie successi con ritmi impressionanti eppure non riesce a far cambiare il pubblico, l’opinione sarà sempre e comunque la stessa: Nole è l’antagonista, il villain, l’antipatico. La colpa è stata quella di non aver accettato il dualismo Federer-Nadal e aver sgomitato per diventare il più scomodo degli invitati a cena, dimezzando i tornei dello Slam vinti da entrambi.

Ma ciò che lascia ancora più di stucco è l’effetto che questa antipatia reciproca porta nei suoi muscoli: più lo stadio si infiamma ad ogni punto perso da Djokovic, più Nole riesce a perfezionare il proprio tennis. Anche ieri, nel massimo dei decibel della Rod Laver Arena (sul 2-1 Thiem) il Djoker ha saputo, durante il Mto, recuperare motivazioni e concentrazione e far zittire tutti alzando il trofeo al cielo. La sensazione è che Djokovic non avrebbe mai vinto tutti questi Slam (17) se il pubblico non gli fosse andato contro per tutta la carriera.

La rivalsa, in certi casi, è il più potente dei carburanti. Sapere di vincere contro 15mila persone, come ieri, dà un sapore ancora più dolce a una vittoria che ormai è un passo in più verso la missione definitiva del numero uno del mondo: non battere i record dei più forti, ma battere i record dei più amati.

Sono stati degli Australian Open strani, questi del 2020. Il tennis si è riscoperto sport, come lo è sempre stato, e mezzo. Mezzo di significati, di storie, di intenti.

È stato il torneo degli incendi: a partire dall’allerta delle settimane prima del torneo, per arrivare alla raccolta fondi milionaria favorita dai migliori di questo sport. Atleti milionari che si sono ritrovati in una terra in fiamme, straziata dal dolore, lo stesso che poi è tornato a metà settimana, con la morte di Kobe Bryant. Sono state versate lacrime per il suo ricordo dagli spalti e dal campo, come quelle di Nick Kyrgios, sceso in campo per il match contro Nadal proprio con la canotta numero 8 dei Lakers.

Ci siamo ritrovati tutti, spettatori e protagonisti, a realizzare che lo sport è una parte importante di quella cosa chiamata vita, che ogni giorno finisce e riinizia ciclicamente. La vita: stroncata dalle fiamme, da un incidente, da un virus, è ciò che viviamo ogni giorno e a cui noi diamo il significato che riteniamo più giusto. Per questo, nonostante quell’alone di grigiore (e di dolore) che ha patinato il torneo, i colori e la vita scaturiti da ogni smash, ogni volée, ogni racchetta spaccata in terra sono il modo migliore per ricordare (e ricordarci) che lo sport è metafora della vita. A volte si esce vincitori, a volte sconfitti, ma sta a noi cercare di essere sempre protagonisti. Il confine tra vincitori e sconfitti in fondo è labile, una sottile linea rossa che spariglia destini e fortuna.

Ne è uscito sconfitto, per esempio, Roger Federer. Dopo un torneo passato a riacchiappare avversari a un passo dalla vittoria, il corpo del 38enne svizzero ha alzato bandiera bianca dopo la maratona contro Tennys Sandgren, per poi arrendersi a Novak Djokovic. Il serbo ha annientato Federer nel capitolo 50 della rivalità con un secco 3-0, per poi complimentarsi con lo svizzero per essere comunque sceso in campo a giocarsi le sue chance, nonostante le evidenti difficoltà nella corsa. Difficile pensare quindi a un Federer sconfitto, nonostante il risultato della partita dica il contrario.

Ne è uscito sconfitto Dominic Thiem nella finale contro Novak Djokovic. Il serbo ha alzato il muro, ancora una volta, inesorabilmente. I selvaggi bombardamenti austriaci, che hanno infuriato per tutto il torneo, si sono fermati al quinto set della finale. Nel momento decisivo il serbo (da oggi nuovo numero uno al mondo) ha dimostrato ancora una volta che non abbiamo mai visto, e probabilmente non vedremo mai più, una tale copertura del campo.

Piccolo appunto: ci servirà un po’ di tempo per capire cosa abbia fatto Djokovic in questa era tennistica. Troppo complicato inquadrare la grandezza di questa impresa, che ha i contorni dei 17 Slam – per ora – nei decenni di rivalità Federer-Nadal. A momento debito lo capiremo, e ci mancherà.

L’Australian Open che si è appena concluso non è stato il primo vinto da un tennista nato negli anni ’90 (l’austriaco è un classe ’93). Cosa ci dice questo dato? Thiem aveva la possibilità di battezzare con una vittoria Slam il proprio decennio a 26 anni, un’infinità rapportati ai 20 anni di Marat Safin agli Us Open 2000 (quando battezzò i tennisti nati negli anni ’80) o i 17 anni di Micheal Chang al Rg 1989 (che battezzò i nati nei ’70). Questa analisi ci mette di fronte a due possibili visioni del fatto: l’incredibile perseveranza di Federer&Co. che hanno dominato 20 anni di tennis o lo sbocciare un po’ in ritardo della cosiddetta NextGen?

Andando oltre questo dilemma irrisolvibile, a cadere è stato Dominic Thiem. L’austriaco, dopo un 2019 da protagonista, ha indossato per le prime due settimane del nuovo anno le vesti del tennista perfetto: leggerezza negli spostamenti e velocità di gambe, timing e potenza furiosa nel colpire la palla (chiedere a Rafa Nadal, randellato per ore nei quarti di finale) e coraggio nel colpire il vincente nei momenti clou di ogni match.

Se questo è ciò che abbiamo dovuto aspettare per tutto questo tempo, sì, ne è valsa la pena: Dominic è una gioia per gli occhi in termini di eleganza e aggressività. Iniziare ad abituarci a questo nome sarà il primo passo per gustarcelo di torneo in torneo, nei prossimi mesi. Ieri è uscito da Melbourne sconfitto ma, ancora una volta, è difficile per l’austriaco pensare che queste non siano state le sue due migliori settimane in carriera.

Il confine tra vittoria e sconfitta è ancor più labile in campo femminile, in cui ormai il processo di rivoluzione iniziato da anni ha portato un equilibrio perfetto dopo anni di tirannia Williams. A trionfare è la mai doma Sofia Kenin, americana classe ’98 che ha avuto la meglio in tre set di una meravigliosa, ritrovata Garbiñe Muguruza. La spagnola, tornata in campo finalmente centrata, ha dominato torneo e primo set della finale. Da lì in poi a prevalere è stato il muro eretto dalla Kenin, che ha avuto ragione con una difesa commovente e un tennis fatto di sacrificio, durato due settimane, utile a coronare il sogno del suo primo Slam in carriera.

Il tennis femminile ha trovato una piacevole quadra nel non avere una padrona. A susseguirsi come vincitrici Slam negli ultimi anni infatti ci sono sempre stati nomi inaspettati e, sotto sotto, ci offre una visione impronosticabile di uno sport senza domini, opposta quindi ai regimi dittatoriali a cui stiamo assistendo da decenni in campo maschile.

“Il tennis non è tutto, state vicino a chi vi vuole bene” ha detto Djokovic. “Queste sono state le due settimane più belle della mia vita” ha detto commossa la Kenin durante la premiazione. La vita sì, che ritorna ciclicamente nelle parole di gioia e di dolore. Viva gli Australian Open quindi, e viva il tennis: nella democratica forma femminile e nel ferreo dominio di tre tiranni nel campo maschile. Stavolta però, come mai prima d’ora, si ha davvero la sensazione di essere all’alba di una nuova era.

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