Sacro e profano si incrociano spesso. Anche a Genova. A foraggiare, ad esempio, la costruzione della cupola della basilica cinquecentesca di Carignano contribuirono, in sostanziosa misura, attraverso le tasse pagate al Podestà, anche le lavoratrici del sesso.

Come pure altri elementi di quella stessa opera di Galeazzo Alessi sono stati realizzati con pietre residue del primo casino della città dopo il suo abbattimento, un edificio posto all’inizio di Strada Nuova (poi via Garibaldi) laddove oggi troneggia il palazzo cinquecentesco di Agostino Pallavicino, attuale sede dell’Unicredit, una delle tante icone del denaro.

Questo e altri aneddoti me li racconta (a me e ai molti altri partecipanti al tour “Amore proibito”) Roberta Mazzucco, una delle guide di Explora, associazione di promozione turistica che vanta decine di partner, fra cui il Comune, e che organizza due o tre volte all’anno (l’ultimo, appunto, è di alcuni giorni fa) suggestive escursioni fra le ex case di tolleranza genovesi.

Ma quanti accadimenti si incrociano, quasi per un magico, imperscrutabile destino? Proprio nella basilica di Carignano, il 13 gennaio 1999, vennero celebrati i funerali di Fabrizio De André, il massimo cantore delle puttane con le sue celebri strofe: “la chiamavano Boccadirosa”; “via del Campo c’è una graziosa”, una graziosa che – racconta il nostro Virgilio dei caruggi a luci rosse – “pare fosse in realtà un trans”. Oppure “vecchio professore cosa vai cercando in quel portone, forse quella che, sola, ti può dar una lezione, quella che di giorno chiami con disprezzo pubblica moglie, quella che di notte stabilisce il prezzo alle tue voglie”, “ispirata da un incontro casuale, in un bordello dei vicoli, fra il cantautore e il suo prof del liceo Colombo”.

Del resto persino San Paolo e Sant’Agostino la pensavano diversamente sul tema dei bordelli: il primo contro (“Sono cloache seminali”), il secondo a favore (“Meglio la prostituzione che l’adulterio e la masturbazione”, insegnava il filosofo di Ippona). A partire dalla loro chiusura, nel 1958, grazie alla legge della senatrice Merlin, ferve un dibattito, fra oratori parecchi gradini più in basso dei due santi-filosofi, su una loro possibile riapertura (recente è la proposta della Lega).

Era radicata già nella Genova (Janua) romana, la prostituzione. Ed era di casa o meglio “di barca” quando le ragazze stazionavano su una specie di chiatta galleggiante posizionata vicino ai campi militari forieri di clienti. A Genova c’era un detto: A l’è cheita ‘na bagascia in maa, ovvero è caduta una bagascia in mare, proprio perché alle prostitute era vietato passare dalla barca alla terraferma e salire a bordo delle navi, a significare qualcosa di assolutamente impensabile.

Solo nel 1417 viene documentato un vero e proprio postribolo, gestito dalla Repubblica attraverso un Podestà che veniva sostituito ogni due anni: era il bordello detto di Montalbano, proprio quello abbattuto per far spazio alle dimore nobiliari di Strada Nuova i cui pietroni finirono in parte nella chiesa dell’Alessi. Fra gli ultimi casini genovesi, quello di vico Ragazzi, dove (nomen omen) potevano entrare anche i minorenni: la legge lo vietava, ma la maitresse Angioina accoglieva anche adolescenti, a volte accompagnati dal papà o da un amico più grande per il varo sessuale. Era l’Angioina, però, a decidere quali ragazze offrire ai pargoli e non viceversa. Preferendo le milf.

Ed ecco riapparire l’incolpevole accostamento sacro-profano: “Nel palazzo dove era situato uno dei più affollati bordelli dei vicoli”, racconta la guida di Explora, “era nata, molti secoli prima, Santa Caterina Fieschi” (1447-1510) figlia di Giacomo Fieschi, imparentato con papa Innocenzo IV. Poco lontano, al casino di vico Carabraghe (forse un nome indicativo…) c’era una stanza dal soffitto viola “che ispirò Gino Paoli nel comporre Il cielo in una stanza“, meravigliosa canzone portata al successo anche da Mina (“Quando sei qui vicino a me questo soffitto viola, no, non esiste più”).

I casini per ricchi erano il Suprema e il Mary Noir, dove si offrivano caviale e champagne. Mentre fra quelli di classe inferiore è passato alla storia il bordello di vico Lepre che “era gestito dalla maitresse Rina, detta ‘la tigre di Gondar’ perché aveva per un periodo esercitato in Etiopia fra le nostre truppe” colonizzatrici. Da lei, lingerie nera bandita: avrebbe offeso la dignità fascista.

Oggi dei bordelli genovesi rimane solo un battiporta di ferro a forma di fallo sul portone di un edificio cinquecentesco di piazza Invrea. Dentro, però, ci sono gli uffici di un notaio. Le prostitute, naturalmente, nei vicoli ci sono ancora, ma adesso ricevono nelle loro tristi stanzette nella zona della Maddalena, a un passo dall’omonima chiesa dove, per secoli, le prostitute si sono recate a messa dopo il lavoro.

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