Luglio 2013, sono le 7 di mattina a Cireglio, piccolo paese vicino a Pistoia. Un van Mercedes attraversa le strade, scende lui. Maglietta bianca, bermuda rossi floreali e zaino in spalla Kobe Bryant va al bar, un saluto all’amica d’infanzia e poi al campetto, la delusione di trovarlo malandato. “Andrebbe messo a posto”, disse agli abitanti di quel posto sulle colline toscane dove era cresciuto negli anni in cui papà Joe giocava nella Kleneex Pistoia in A2. Aveva fatto lo stesso a Reggio Emilia, quando chiese di riunire tutti i compagni dell’adolescenza in una palestra per un abbraccio e due tiri. Proprio a Reggio Emilia dove verrà intitolata una piazza a suo nome. E lo ricordano anche a Reggio Calabria e Rieti. “Una peste. Seguiva sempre il padre, voleva giocare in ogni momento”, racconta Giuliano Colarieti, ex dirigente del club laziale. Erano gli anni delle prime righe della sua lettera d’addio al basket, diventata un corto da premio Oscar: “Cara pallacanestro, sin dal momento in cui ho cominciato ad arrotolare i calzettoni di mio papà e a immaginare tiri decisivi per la vittoria al Great Western Forum – scrisse Kobe, morto domenica in un incidente del suo elicottero – mi è subito stata chiara una cosa: mi ero innamorato di te”.

Un amore scoppiato in Italia, dove ha vissuto tra i 6 e i 13 anni. Qui – lo raccontò lui – ha imparato i fondamentali, la base tecnica per quel talento che lo ha portato a trasformarsi in uno dei migliori giocatori di pallacanestro della storia. “Senza quelli non sarei mai diventato Kobe Bryant”, confessò ai ragazzi della Stella Azzurra Roma sei anni fa. Non solo: “In Italia ho imparato la passione per la vita, per la famiglia, per i figli: per questo la porto nel cuore”, ha ricordato più volte. Le vacanze qui, Liguria e isole campane, non a caso una figlia, nata appena 7 mesi fa, chiamata Capri. Aveva fatto persino un pensierino, quando in Nba scattò il lockout: “Venire qui un sogno o realtà? Diciamo, 50 per cento sogno e 50 per cento realtà”, disse tra il serio e il faceto mentre si vociferava che la Virtus Bologna ci stesse provando davvero a 20 anni dal rientro negli Stati Uniti per frequentare la Lower Merion Hogh School. “Quando ero piccolo il mio sogno era giocare in Serie A. La Nba sembrava lontana”, raccontò anni dopo quando l’high school era bella che finita e il sogno che sembrava lontano era diventata la lega da dominare.

Dietro si era portato la nostra lingua, parlata fino all’ultimo in maniera fluente – “Mi esercito ancora con le mie sorelle ogni tanto”, disse intervistato da Linus a Radio DeeJay – e la passione per il calcio. L’amore per il Milan di Marco Van Basten e Frank Rijkaard, gli idoli calcistici da bambino. Una lotta in casa: “Era un casino, papà tifava l’Inter di Lothar Matthäus e mia sorella la Juventus”, rise ai microfoni di Sky Sport. Uno che aveva sempre amato sui campi di pallacanestro era invece Alessandro Fantozzi, allora playmaker della Libertas Livorno. Nella sua ‘vecchia patria’ tornava appena poteva, spesso a Positano, e ne parlava anche quando era dall’altra parte del mondo. Arrivato a Rio de Janeiro alla vigilia della Coppa del Mondo nel 2014 gli chiesero per chi tifasse: “Usa naturalmente – rispose – Ma ricordate che sono mezzo italiano”. E degli anni qui, dal 1984 al 1991, tra elementari e medie ricordava davvero tutto. Perfino i film di Fantozzi, i Ragazzi della 3ª C, Kiss Me Licia. “Lo vedevo per colpa delle mie sorelle”, sorrise. Da oggi fino a domenica su tutti i campi di basket si osserverà un minuto di silenzio prima di ogni partita di ogni categoria per ricordare la leggenda. Kobe, il mezzo italiano.

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