Sarebbe un errore ritenere che l’uccisione di Soleimani sia un fatto isolato, attribuibile esclusivamente a un folle gesto di chi si trova attualmente a ricoprire la carica di Presidente della più grande potenza militare al mondo. Questo omicidio mirato, o targeted killing, a opera di un drone statunitense in Iraq, è il frutto di quasi 20 anni di scellerate scelte militari e gravissime distorsioni dei principi di diritto prese nell’ambito di una “guerra al terrorismo” amorfa e sconfinata (da ogni punto di vista) a livello globale.

L’assassinio di Soleimani, che tanto sta facendo preoccupare e indignare in Europa e non solo, è anche la conseguenza della complicità – attiva o in forma di colpevole silenzio – dei Paesi europei sul punto. E tra questi, un ruolo di primo piano spetta anche all’Italia.

Vado indietro di diversi anni a rileggere quello che scrivevo su questo blog nel 2012 e nel 2013 a proposito della guerra dei droni intrapresa prima da George W. Bush, e poi dall’allora Presidente Barack Obama, a cui si deve sostanzialmente lo sdoganamento dei targeted killings e la proliferazione dei droni come arma letale in un contesto non solo di guerra, ma anche di antiterrorismo.

Il quadro era già estremamente preoccupante allora: gli Stati Uniti si arrogavano il diritto di uccidere chiunque fosse ritenuto un pericolo per la loro sicurezza sulla base di prove segrete, non passate al vaglio di alcuna autorità giudiziaria, al di fuori di ogni garanzia legale, facendo ricorso alla forza letale – solitamente tramite un missile sganciato appunto da un drone – in qualsiasi territorio e a prescindere dal consenso dello Stato territoriale.

Come nota sul New Yorker il 7 gennaio Oona A. Hathaway, professoressa di diritto internazionale a Yale ed ex-consigliera del Dipartimento della Difesa sotto la presidenza Obama, “la realtà della situazione è che negli anni i Presidenti [Usa] hanno interpretato in modo espansivo i loro poteri di guerra, e questo ha spianato la strada a ciò che il Presidente [Donald Trump] sta facendo ora”.

Non c’è dubbio che tale espansione di poteri sia avvenuta anche sulla base di pareri rilasciati dagli avvocati del Presidente, ma occorre considerare che tali pareri non sono mai stati sottoposti ad alcun vaglio giudiziario. E il Congresso non è dotato di un proprio ufficio legale paragonabile a quello di cui dispone appunto il Presidente, cosicché non ha neanche la capacità di rispondere adeguatamente agli “eccessi di autorità esecutiva” [del Presidente].

Qualche tentativo in questi anni è stato fatto per portare gli omicidi mirati dei droni davanti alle corti, comprese quelle statunitensi, ma finora senza esiti concreti. In particolare, nel caso di Anwar al Awlaqi, che era cittadino americano e quindi coperto dalle garanzie costituzionali, ucciso in Yemen nel 2011, il governo si è appellato con successo alla dottrina della sicurezza nazionale e dell’atto politico per sottrarre il caso alla competenza della Corte.

Il punto fondamentale da notare è come a partire dall’11 settembre 2001, da Bush a Trump passando per Obama, tutti i presidenti statunitensi abbiano adottato un paradigma di guerra per trattare di operazioni antiterrorismo. Lo hanno fatto, come nota Antony Dworkin su Just Security, per colpire presunti terroristi all’estero, appartenenti ad Al Qaeda o ad altre organizzazioni collegate, in paesi come il Pakistan, la Somalia, lo Yemen.

La giustificazione adottata è sempre stata quella basata sui poteri straordinari dati al Presidente Usa all’indomani dell’attacco alle Torri gemelle, che avrebbe permesso di eliminare (presunti) terroristi come “nemici”, considerandoli alla stregua di obiettivi militari in guerra, in quanto appartenenti a un gruppo armato (Al Qaeda) parte di un amorfo e sconfinato conflitto armato di natura non internazionale (non essendo Al Qaeda uno Stato).

In tal modo i limiti all’uso della forza letale nei confronti di tali sospetti terroristi sono stati drasticamente ridotti, anche al di fuori di qualsiasi campo di battaglia (concetto peraltro ormai di difficile definizione nell’ambito dei conflitti asimmetrici contemporanei).

La retorica della war on terror (che guerra tecnicamente non è, o per lo meno non nella sua interezza) ha tracimato e trascinato via gli argini, inquinando concetti giuridici che avrebbero invece dovuto essere difesi. Anche la necessità di dimostrare che si trattasse di un attacco letale, di un targeted killing, difensivo, ossia giustificato al fine di evitare un imminente pericolo per la vita di cittadini statunitensi, è stata sostanzialmente eliminata già sotto i precedenti presidenti Usa, a dispetto di quanto richiesto dal diritto internazionale.

In questo senso l’omicidio di Soleimani si inserisce in un solco ormai ben tracciato, sebbene rappresenti un ulteriore passo in una direzione pericolosissima oltre che in violazione dei principi sui limiti all’uso della forza e a tutela del diritto alla vita internazionalmente riconosciuti.

Per la prima volta, infatti, il targeted killing di un “nemico” al di fuori di un contesto di guerra interessa un individuo appartenente all’apparato di uno Stato sovrano: non più (o non solo) un membro di una organizzazione terroristica (o considerata tale), ma un comandante di un esercito statale. Come nota ancora giustamente Dworkin, l’eliminazione di un comandante militare di un altro Stato sovrano al di fuori di un contesto bellico segna il passaggio della cosiddetta war on terror nel contesto inter-statuale.

L’amministrazione Trump ha giustificato il targeted killing di Soleimani descrivendolo come “azione difensiva”, contro presunti pericoli imminenti per la vita di cittadini statunitensi in Iraq e nella regione, ma non appare in grado di fornire le prove di quanto sta asserendo.

Per questo motivo l’operazione è fortemente criticata all’interno degli Stati Uniti stessi e sono molte le voci autorevoli che si sono levate in questi giorni per denunciarne la illegalità. Si veda tra tutte quella di Mary Ellen O’Connell, professoressa di diritto internazionale e relazioni internazionali presso l’Università di Notre Dame (Usa) e grande esperta della materia.

Davanti a tale scempio di principi fondamentali del diritto, che cancella il confine tra guerra e pace, l’Europa ha mancato di fare sentire adeguatamente la sua voce. Il che è grave perché è in gran parte grazie alle infrastrutture su suolo europeo (si pensi a Ramstein in Germania) e alla collaborazione dei nostri governi che gli Stati Uniti possono condurre le operazioni in questione.

Quanto all’Italia, la concessione delle nostre basi militari, e in particolare di Sigonella – da cui come noto partono droni armati statunitensi diretti verso la Libia – dovrebbe essere urgentemente ripensata alla luce di tali eclatanti violazioni del diritto internazionale e dei principi a tutela del diritto alla vita applicabili in uno Stato di diritto.

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