Si getta nel cestino di casa ciò non serve più. Generalmente, quando si fanno le pulizie, le cose che non stanno al proprio posto o che riteniamo inutili vengono rimesse in ordine oppure buttate. Poi, dal cestino casalingo finiscono nel cassonetto sotto casa e da qui nella discarica, collocata nelle aree cittadine più remote, dove i rifiuti prodotti vengono concentrati e lavorati.

Soprattutto nel periodo natalizio, quando il delirio consumistico colpisce come un virus la collettività, Roma è soggiogata dai rifiuti: straripano dai cassonetti finendo ai bordi delle strade o sopra i marciapiedi, impregnati di acqua piovana o dispersi dalla tramontana. E il sistema, in prossimità delle feste, puntualmente collassa con i rifiuti per strada che diventano parte dell’arredo natalizio della città.

C’è un legame invisibile che lega la “monnezza” di Roma agli scarti umani che la città produce ed espelle dal suo corpo sociale e in questo, ancora una volta, la presenza di quanti vivono nelle baraccopoli romane ci aiuta a leggerlo e a comprenderlo. Vediamo alcuni esempi.

Può apparire casuale la collocazione delle baraccopoli romane quasi sempre in prossimità di discariche regolari o abusive dove è ammassato ciò che non è più utile al sistema produttivo e nella città è considerato un “fuori posto”. Nel passato, quando Roma progettava e organizzava un campo rom, individuava negli interstizi della periferia estrema – anche dove non sarebbe mai potuta essere rilasciata alcuna concessione edilizia – le aree più adatte.

Il campo di Castel Romano è stato costruito dentro una Riserva naturale a 25 chilometri dal centro; quello di Salone si trova dove per anni l’inquinamento ambientale dello stabilimento Bsf ha rappresentato un’emergenza nazionale; il “villaggio” La Barbuta sopra falde acquifere e sotto il cono di volo dell’aeroporto di Ciampino; nel centro di raccolta rom di via Salaria – aperto dal 2009 al 2016 – le 400 persone accolte vivevano al confine con uno stabilimento di trattamento che giornalmente lavorava centinaia di quintali di rifiuti urbani.

Nell’immaginario collettivo il luogo di lavoro di un baraccato rom è il cassonetto e quindi anche nelle politiche inclusive presentate come virtuose, come quelle del “Piano rom” della Raggi, i rom vengono sempre associati, per quanto riguarda l’asse occupazione, al raccoglitore di metallo o al rovistatore dei rifiuti.

In Italia uno stato di emergenza si attiva in caso di calamità naturali o ambientali e nella Regione Lazio si parla spesso di “emergenza rifiuti” che poco si allontana dall’”emergenza nomadi” proclamata nel 2008 dal governo Berlusconi e mantenuta viva per tre anni, prima che il Consiglio di stato la dichiarasse illegittima. I rifiuti urbani si differenziano e questo vale anche per i “rifiuti umani”. I rom, e non i barboni o i rifugiati politici, vanno concentrati nei campi che, se sono in muratura, vengono denominati dall’Amministrazione Capitolina “centri di raccolta rom”, tanto simili nel nome ai “centri di raccolta rifiuti” dell’Azienda Municipalizzata che li gestisce.

C’è una profilassi specifica con tanto di protocollo nel trattamento dei rifiuti. Non è forse vero che se sei rom e vivi in un campo il trattamento istituzionale risponde a regole, convenzioni, uffici e programmi dedicati? Chi tratta la “questione rom” è uno specialista della materia, un esperto. Meglio se, come a Roma, un operatore della Croce Rossa, l’organizzazione specializzata nell’emergenza sia bellica che sanitaria.

Una discarica, debitamente recintata, videosorvegliata, lontana dalla città ha costi di costruzione e di gestione altissimi e nessuno la vuole davanti casa. Vale anche per qualsiasi campo rom. Nel 2018 secondo il Censis il 70% degli italiani rifiutava l’idea di avere un cittadino rom come vicino di casa. Per non parlare delle proteste di Torre Maura della scorsa primavera. Lì il Comune progettava la nascita un “centro di raccolta rom” e, come quando trapela il nome di una nuova area dove le autorità intendono conferire i rifiuti, la cittadinanza protesta e il consenso elettorale posto a rischio.

C’è uno scarto umano, una ”umanità in eccesso” – come l’avrebbe chiamata Zygmunt Bauman – o un “popolo delle discariche” – come ha scritto l’antropologo Piasere – che a Roma produciamo, allontaniamo, concentriamo lontano dai nostri sensi. Del quale, almeno quando i cumuli di rifiuti natalizi movimentano le nostre strade addobbate a festa, dovremmo ricordarci. Anche solo per una banale associazione di idee.

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