Con la terza inflazione più alta al mondo, una precipitosa svalutazione del peso nell’ultimo anno, la crescente richiesta di dollari nelle ultime settimane che ha portato la Banca Centrale a fissare un severo tetto cambiario di 200 dollari al mese, e un netto deterioramento delle condizioni sociali con oltre un terzo della popolazione in povertà, il cammino del neo presidente argentino Alberto Fernandez si preannuncia in salita. Il recupero di Mauricio Macri nelle urne rispetto al crollo delle primarie ne ha fatto un interlocutore post-elettorale credibile. E per risolvere una situazione estremamente delicata il nuovo inquilino della Casa Rosada, peronista moderato, ha deciso di intraprendere la strada del multilateralismo, sia in politica interna, che in politica estera.

Oltre 32 milioni di argentini si sono recati alle urne lo scorso 27 ottobre, decretando la vittoria di Alberto Fernandez con il 48% delle preferenze, contro il 40,4 raccolto dal presidente uscente Mauricio Macri. Due punti in meno rispetto alle primarie di agosto per l’ex capo di gabinetto di Nestor Kirchner, 7,7% invece in più per Macri, che si è dunque proposto come oppositore di peso. Dopo l’incontro tra i due sfidanti alla Casa Rosada all’indomani delle elezioni, Fernandez nei giorni scorsi si è intrattenuto anche con Roberto Lavagna, economista e suo collega nel primo governo Kirchner, classificatosi nelle urne in terza posizione con il 6,1% delle preferenze. Fernandez rappresenta l’ala centrista e moderata dell’alleanza peronista, e per tirare fuori il Paese dalla crisi ha intrapreso una linea di dialogo con le altre forze politiche che rappresenta una decisa discontinuità rispetto a quattro anni fa, quando la sua partner elettorale Cristina Fernandez de Kirchner, in uscita dalla Casa Rosada, aveva rifiutato ogni passaggio formale degli attributi presidenziali. Con un Parlamento estremamente polarizzato, dove nove onorevoli su dieci appartengono al Frente de Todos o a Cambiemos, e una maggioranza presente al Senato ma non alla Camera, la necessità di trovare punti di incontro tra le forze politiche potrebbe agevolare l’operato di Alberto Fernandez, che punta al multilateralismo anche in politica estera.

Durante il suo viaggio verso il Messico, il primo da presidente in pectore alla ricerca di investimenti in quella che è appena divenuta la seconda economia dell’America Latina, Fernandez ha infatti mantenuto aperta la propria linea telefonica, intrattenendosi nuovamente con Macri, ma anche con Donald Trump. Al centro del dialogo la richiesta di una sponda per i prossimi impegni di Buenos Aires con il Fmi, così come già successo con la gestione repubblicana della Casa Bianca di George Bush, e l’evoluzione geopolitica latinoamericana. Proprio in Messico, a Puebla, lo scorso luglio oltre 30 leader della sinistra latinoamericana e spagnola si sono incontrati per dare forma a un movimento contrapposto al cosiddetto Grupo de Lima, costituitosi due anni fa per provare a risolvere la perenne crisi venezuelana. Al Grupo de Puebla fanno riferimento, tra gli altri, Lula da Silva e Dilma Rousseff, gli ex presidenti di Paraguay, Ecuador e Colombia Fernando Lugo, Rafael Correa ed Ernesto Samper, e José Luis Rodríguez Zapatero. “La nostra maggiore ossessione è quella di ricostruire l’integrazione regionale in America Latina”, ha detto Alberto Fernandez, che farà gli onori di casa del prossimo incontro tra i leader previsto a partire dall’8 novembre proprio a Buenos Aires, e che vedrà la partecipazione anche del vicepresidente boliviano, Álvaro García Linera e dell’ex presidente uruguayano José “Pepe” Mujica.

“Le società si misurano con macro-numeri, però nessuno chiede alla gente se è felice”, ha detto Mujica in un incontro con Alberto Fernandez alla Universidad Tres Febrero, prima del volo in Messico. L’ex presidente uruguayano ha parlato dell’”utopia necessaria e imprescindibile di fare un’Argentina migliore, un’America Latina migliore, un mondo migliore”. “Chi può vivere in pace sapendo che colui che sta a lato sta soffrendo?”, si è chiesto il nuovo inquilino della Casa Rosada. “Le persone affamate non sono una statistica. Come possiamo restare in pace con le nostre coscienze?”.

Gli ultimi dati dell’Indec, l’istituto nazionale di statistica, segnalano oltre 14,4 milioni di persone in condizioni di povertà, il 35,4% della popolazione urbana, ai massimi dal 2007. Negli ultimi dodici mesi sono state 3,4 milioni le nuove persone colpite. Secondo l’Universidad Católica Argentina, entro fine anno la popolazione coinvolta rappresenterà il 40 per cento. E la fascia di popolazione che soffre di più è quella dei bambini e dei ragazzi: il 52,2% dei minori di 14 anni vive in una situazione di povertà, un anno fa era il 46,8 per cento. “Se quando sarà terminato il mio mandato la povertà non si sarà ridotta, allora avrò fallito, nonostante le cose che avremo ottenuto. Tutto il resto saranno scuse”, aveva detto durante il suo mandato Macri, che nelle ultime settimane prima del voto aveva congelato gli aumenti già previsti della tassazione di combustibili, telefonia, carte prepagate ed elettricità, rincari che entro novembre diventeranno progressivamente effettivi. Secondo il Fmi il Paese chiuderà il 2019 con un’inflazione del 57,3%, superata nel mondo solo da Venezuela e Zimbabwe, una situazione critica che si accompagna alla svalutazione del peso, con un cambio ufficiale rispetto al dollaro passato dai 37 agli oltre 60 pesos per dollaro in meno di un anno. Il giorno dell’insediamento di Macri per un dollaro bastavano poco più di 9 pesos, e il rischio Paese secondo le stime di Jp Morgan era a 480 punti. Oggi sfiora i 2300.

Con un prestito di 57 miliardi di dollari negoziato con il Fmi lo scorso anno che ne ha fatto il suo maggiore debitore, di cui 44.000 milioni già ricevuti, l’Argentina detiene oggi poco più di 43 miliardi in riserva straniera, e al momento vede congelate le prossime tranche. Dalle elezioni primarie di agosto a oggi le riserve si sono ridotte di 23 miliardi di dollari, e i biglietti verdi sono sempre più richiesti. Macri ha posto a settembre un tetto di 10.000 dollari per mese al cambio in valuta estera, mentre poche ore dopo le elezioni la Banca Centrale ha severamente ridotto questa quota a 200 dollari al mese, almeno fino a dicembre, quando il passaggio di consegne tra il presidente uscente e Fernandez sarà effettivo. La vittoria peronista delle primarie aveva già alimentato le preoccupazioni su nuove restrizioni cambiarie, restituendo linfa al mercato occulto del dollaro parallelo e al suo sottobosco fatto di arbolitos, cioè agenti di cambio del mercato nero definiti “alberelli” per il colore del prodotto che offrono, ovvero valuta americana nelle strade di Buenos Aires secondo i valori del dollaro blue, vale a dire il cambio parallelo, secondo un’operazione che viene definita dollaro purè, nome che probabilmente prende origine durante la crisi del 2001 quando nel mercato illegale si confondevano dollari di origine diversa. Il dollaro blue oggi vale intorno ai 65 pesos, con una differenza del 7% rispetto al cambio ufficiale, dopo aver sfiorato anche gli 80 pesos.

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