Ci mancava solo l’effetto dei cambiamenti climatici per completare un quadro sicuramente non confortante. Secondo uno studio pubblicato su Nature Climate Change da quattro ricercatori italiani che lavorano presso il Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici (Cmcc), l’Rff-Cmcc European Institute on Economics, la Scuola Superiore Sant’Anna, l’Università Bocconi e il Politecnico di Milano, il rischio climatico influisce negativamente sui bilanci delle istituzioni finanziarie e, pertanto, può essere rilevante per la stabilità finanziaria, in particolare se il mondo della finanza non calcola correttamente i rischi correlati.

In altri termini i cambiamenti climatici rischiano di minare la stabilità del sistema finanziario su scala globale.

Vi starete chiedendo: ma in che modo i rischi fisici come l’impatto di catastrofi ambientali da economici, sociali e poi geopolitici possono diventare finanziari? Partiamo dalla base: le imprese devono ripensare il loro modo di fare business e orientare le loro azioni verso un’economia a basse emissioni di gas (in particolare il carbonio) che sono estremamente dannose per l’intero ecosistema.

Ma ciò risulta una sfida tutt’altro che semplice, perché richiede investimenti che il sistema finanziario, per la crisi strutturale che attraversa e per la cecità del proprio management, non è in grado di sostenere. Di conseguenza i danni alle infrastrutture causati da eventi catastrofici come frane e alluvioni e il calo di produttività delle imprese potrebbero far impennare i fallimenti delle banche (da +26% fino a +248%), mentre il salvataggio di quelle insolventi costerebbe ai governi circa il 5-15% del Pil all’anno, con un’esplosione del debito pubblico che potrebbe arrivare a raddoppiare nel 2100.

Ma cosa stanno facendo le banche, soprattutto del nostro paese, per salvaguardarsi da un rischio di perdite che tra qualche decennio possono diventare non assicurabili? Quali strategie (!!!) stanno producendo per ridurre l’esposizione nei confronti delle imprese ad alta intensità di carbonio? Nulla o quasi.

In base alla mia esperienza diretta sul mercato italiano, al momento nel nostro paese una sola banca, tra l’altro di piccole dimensioni (Banca Popolare Etica), sta investendo in tal senso concretamente e non con protocolli ed elaborazioni di mission che servono solo a garantire una reputazione di facciata. In questa banca, ad esempio, la valutazione del rischio creditizio nei confronti delle imprese e dei privati è effettuata anche da “valutatori sociali”, che verificano tra l’altro l’impatto ambientale del processo produttivo o commerciale dell’impresa, nonché il rischio collegato ad esempio alla erogazione di un mutuo per l’acquisto di un immobile in aree vulnerabili a inondazioni, incendi o uragani.

Per il resto, visioni strategiche solo concentrate sul breve periodo, all’insegna del “vediamo di tirare avanti ancora un po’”. E i regolatori finanziari, oltre alle necessarie analisi e studi effettuati al riguardo, che ruolo stanno avendo per sollecitare, se non imporre, strategie di mitigazione di tali rischi e adattamento veloce ad un contesto davvero preoccupante? Perché non obbligare (non suggerire) le banche ad adottare sistemi di credit rating che tengano conto di una valutazione ambientale del richiedente il finanziamento? Forse solo perché, in tal modo, quella fine sarebbe solo anticipata.

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