La lettera con cui il Regno Unito chiede un nuovo rinvio per l’uscita dall’Ue è arrivata a Bruxelles, ma in calce non c’è la firma del primo ministro. E’ lo stratagemma utilizzato da Boris Johnson per tenere tutto insieme: l’obbligo di chiedere l’estensione derivante dalla la legge anti-no deal – approvata a settembre dai suoi oppositori in Parlamento per obbligarlo a farlo laddove un accordo di divorzio non fosse stato ratificato entro le 23 di ieri – e le dichiarazioni delle ultime ore: “Non negozierò un rinvio con l’Unione europea”, aveva detto.

L’annuncio è arrivato nella serata di sabato da Donald Tusk: “La richiesta di estensione è appena arrivata. Comincerò adesso a consultare i leader Ue su come reagire”, ha twittato il presidente del Consiglio Europeo. In effetti i testi inviati da Londra sono tre, come precisa Downing Street. Una lettera non firmata del premier, molto sintetica, in cui viene chiesta la proroga fino alle 23 del 31 gennaio 2020. Il testo specifica che si riuscirà ad arrivare alla ratifica di un accordo prima di questa data “questo periodo potrebbe terminare in anticipo”. Una dell’ambasciatore britannico all’Ue, Tim Barrow, in cui si precisa che la richiesta è legata a un obbligo di legge a causa dell’approvazione del Benn Act nel Parlamento di Westminster. E una terza firmata da Johnson nella quale il primo ministro argomenta sulla non necessità del rinvio della Brexit oltre il 31 ottobre, sottolineando come il suo governo non lo ritenga una soluzione in linea né con gli interessi di Londra, né con quelli di Bruxelles e dei 27, né con quelli della democrazia e dell’obbligo di rispettare la volontà popolare espressa nel risultato del referendum del 2016.

La soluzione trovata rischia di esporre comunque Johnson al rischio di ricorsi in tribunale da parte delle opposizioni e di attivisti pro Remain, poiché il Benn Act prevede che la proroga venga chiesta in buona fede e senza tentativi di boicottarne gli scopi o di spingere l’Ue a rigettare l’istanza.

A Londra, intanto, gli uomini vicini al premier continuano a sostenere la sua linea: il Regno Unito uscirà dall’Ue il 31 ottobre, ha confermato oggi a Sky News Michael Gove, ministro incaricato di coordinare l’intensificazione dei preparativi per portare il Paese fuori dall’Unione europea senza un accordo. Rispondendo a chi gli chiedeva se può garantire la Brexit a fine mese, Gove ha risposto: “Sì, questa è la politica che abbiamo stabilito”. E poi: “Abbiamo i mezzi e le capacità per farlo”.

La triplice lettera di Londra è figlia dell’ennesimo stop inflitto dalla Camera dei Comuni a BoJo. Sabato è saltato il voto decisivo sul ‘Boris deal’, ovvero in nuovo accordo raggiunto in settimana da Johnson con Bruxelles. Tutta colpa (o merito, a seconda dei punti di vista) di un emendamento partorito dall’inesauribile repertorio di cavilli regolamentari di sir Oliver Letwin, impomatato e manieratissimo mandarino conservatore pro Remain espulso di recente dal gruppo per aver rotto con la linea di Johnson.

E’ stato lui a promuovere l’iniziativa – appoggiata da altri dissidenti Tory emarginati e avvelenati, come l’ex cancelliere dello Scacchiere Philip Hammond, oltre che dalla quasi totalità delle opposizioni e dagli unionisti nordirlandesi del Dup – che ha fatto saltare il banco. Un emendamento, appunto, concepito per far slittare la resa dei conti sull’accordo sulla Brexit fino all’approvazione di tutta la legislazione connessa (l’insieme di norme tecniche attuative che disciplineranno l’uscita), quindi verosimilmente oltre la scadenza del 31 ottobre promessa da Johnson. Un emendamento passato alla fine con 322 voti contro 306.

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