No all’archiviazione dell’inchiesta su quello che a Bari viene chiamato il palazzo della morte. Il gip ha ordinato nuove indagini sul caso della palazzina in via Archimede 16, nel quartiere Japigia, nella quale 21 inquilini dalla metà degli anni Novanta ad oggi si sono ammalati di neoplasie rare causate dai roghi della vicina ex discarica comunale e molti di essi morti. Il giudice per le indagini preliminari Valeria La Battaglia ha accolto l’opposizione alla richiesta di archiviazione presentata dall’avvocato Michele Laforgia che rappresenta i familiari degli inquilini morti o in cura, ritenendo che “le investigazioni suppletive indicate dagli opponenti siano indubbiamente pertinenti e necessarie rispetto all’accertamento dei fatti” relativi al reato di morte e lesioni come conseguenza di altro reato.

Secondo la Procura erano trascorsi troppi anni per perseguire penalmente i responsabili, sindaci e direttori Amiu di Bari del ventennio dal 1962 al 1988. Per questo il pm Baldo Pisani aveva chiesto l’archiviazione. Per il giudice, invece, il reato “non può considerarsi allo stato prescritto” perché “è da individuarsi nell’epoca dell’insorgenza della malattia o di verificazione dell’evento morte”, facendo così risalire l’epoca delle condotte illecite “dall’inizio degli anni ’90 al momento attuale”.

Il gip ha fissato il termine di tre mesi per “le ulteriori indagini” che dovranno riguardare “la compiuta identificazione dei responsabili della realizzazione e della occupazione dell’immobile in via Archimede 16, avvenuta in una zona ad alto rischio ambientale e nel difetto del relativo certificato di abitabilità, nonché dei responsabili della vigilanza e della gestione della discarica all’epoca degli incendi all’origine delle emissioni nocive sino alla data di completamento delle opere di recupero”. La Procura dovrà poi procedere alla “individuazione alla data odierna del numero delle neoplasie dei decessi riconducibili al fenomeno dell’inquinamento ambientale derivante dalla combustione di prodotti e materiali provenienti dall’area occupata dall’ex discarica Caldarola“.

Nel provvedimento si sottolinea che quell’edificio è stato il primo costruito in quella zona caratterizzata da “una situazione di incuria per l’ingente abbandono di rifiuti di ogni tipo che andava accumulandosi da diversi anni costituendo una discarica a cielo aperto” ma che, nonostante questo, “soltanto nei dieci anni successivi era stato presentato un progetto esecutivo per il recupero ambientale della ex discarica”.

Il giudice evidenzia che gli stessi consulenti della Procura avevano riscontrato “una vistosa anomalia statistica”, rilevando che “esiste un aumento di eventi neoplastici che deriva dall’essere stati residenti in via Archimede 16” dovuto alla “esposizione a ripetute emissioni di fumi di combustione di diversa natura derivanti dalla discarica Caldarola, desumibile dalla riscontrata concentrazione sugli intonaci esterni di un tipo di diossina, tipicamente rilevabile nell’aria di discarica in zone a rischio in Cina”. Per quanto riguarda i composti tossici “che sono penetrati all’interno delle costruzioni”, questi “possono essere stati assorbiti dagli abitanti scatenando, coll’andare degli anni, le malattie oggetto dell’indagine“. Il giudice ricorda infine che, stando ai dati dell’Istituto Superiore di Sanità, “il quadro epidemiologico degli occupanti l’edificio veniva equiparato significativamente a quello riscontrato nelle aree della cosiddetta terra dei fuochi“.

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