“Chi sei? Cosa vuoi da me?”. I suoi occhi. Quegli occhi che celano a stento l’odio, puntati nei miei. E quel mezzo sorriso, di disprezzo. Per un attimo, nello stanzino di tre metri per quattro della base militare di Rmeilan, nel Nord della Siria, i ruoli sono invertiti: lui, il combattente dell’Isis detenuto nelle carceri curde da chissà quanto tempo, è il mio carnefice; io, il suo prigioniero. È il suo sguardo che lo prova. Lo sguardo di chi, con le proprie mani, ha già ucciso e lo può fare di nuovo. Lo vuole fare di nuovo. Gli serve solo una piccola, breve occasione. I suoi aguzzini, i soldati delle Sdf col passamontagna calato sulla testa, sono fuori, a qualche metro dalla porta. E, fortuna mia, sono un ottimo deterrente. “Non ho niente da dire” saranno le parole, definitive, del miliziano di Daesh seduto a due metri da me. “Ora posso andarmene?”.

Poco più di due settimane fa mi sono trovato faccia a faccia, insieme al collega Gianni Rosini, con due membri del sedicente Stato islamico, catturati dalle forze curde alleate degli Stati Uniti nel corso delle operazioni militari nella provincia di Deir el-Zor. Uno dei due era Anouar Haddouchi, un combattente belga accusato di aver sgozzato più di cento persone (tanto da aver guadagnato il soprannome di “boia di Raqqa”) e di essere coinvolto, secondo le autorità del suo Paese, negli attentati di Bruxelles. In pratica coloro che più d’altri, nell’ultimo lustro, per buona parte dell’opinione pubblica dell’Occidente si sono avvicinati al concetto di Male. Quelli che ci sono apparsi mentre, in diretta, tagliavano la gola ai kafir, agli infedeli; o che si facevano saltare in aria nelle nostre città, per seminare il terrore.

Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha messo nero su bianco ciò che aveva anticipato nel dicembre dello scorso anno (dichiarazioni che gli costarono le istantanee dimissioni del segretario della Difesa, James Mattis, e del numero uno della coalizione internazionale anti-Isis, Brett McGurk): le truppe a stelle e strisce si ritirano dalla Siria. Prima della serie di tweet con cui Trump ha spiegato la decisione, la Casa Bianca ha diffuso un breve comunicato con cui annuncia, di fatto, il via libera del governo di Washington all’operazione militare, programmata da tempo, dal presidente turco, Recep Erdogan, a est dell’Eufrate “per spazzare via i terroristi curdi”.

Ciò che ha attirato subito la mia attenzione, nel comunicato, è la delirante affermazione secondo cui “la Turchia”, con il ritiro dei militari americani, “sarà ora responsabile dei combattenti dell’Isis catturati dagli Stati Uniti”. Si tratta, questa, di una duplice mistificazione della realtà. Primo perché Trump dà per scontato che i prigionieri passeranno nelle mani dell’esercito turco. Il che ancora non è successo, ovviamente. Ma che se dovesse accadere implicherebbe una sanguinosa guerra tra turchi e curdi (coi secondi, com’è logico aspettarsi, sconfitti dalla potenza Nato). E secondo perché i miliziani di Daesh non sono stati arrestati dagli Usa, bensì dalle Sdf, le forze guidate dalle Ypg, i battaglioni curdi. E nelle carceri curde sono detenuti. Ad al-Hasake, a Dashisha, nei campi di al-Roj e di al-Hawl.

La scelta di riportare oltreoceano i soldati (mentre scrivo l’esercito americano sta abbandonando le postazioni chiave, sul confine turco, di Ras al-Ayn e di Tal Abyad), mi ha ricordato quello che successe, con protagonisti diversi, tra i peshmerga e la popolazione yazida che abitava nel distretto di Sinjar, nel Kurdistan iracheno, nell’agosto del 2014. Poco prima dell’avanzata dell’Isis, i militari a servizio di Mas’ud Barzani convinsero gli abitanti a consegnare loro le armi, con la promessa di proteggerli in caso di attacco. Ma quando i seguaci di Abu Bakr al-Baghdadi arrivarono nella provincia, i peshmerga si ritirarono. Uomini e anziani vennero trucidati, donne e bambine diventarono schiave sessuali dei miliziani dell’Isis. Un genocidio, come stabilì l’Onu.

Allo stesso modo, alla fine dello scorso agosto, gli Stati Uniti hanno convinto i propri alleati, i curdi, a distruggere le fortificazioni militari sul confine con la Turchia con la promessa di proteggerli in caso di un attacco di Ankara. A distanza di poco più di un mese, gli Usa hanno deciso unilateralmente di abbandonare l’area e i loro (ex) alleati. Risultato: le Ypg sono senza l’appoggio di Washington e senza le postazioni difensive. In più, mentre scrivo, gli aerei turchi hanno iniziato a bombardare le città sul confine tra Siria e Iraq.

Il tradimento di Trump (non trovo altre parole per definirlo) si è consumato all’oscuro dei diplomatici americani che si occupano di Siria e contro le raccomandazioni dei vertici del Pentagono (nonché contro le intenzioni dell’inviato speciale a capo della coalizione anti-Isis, James Jeffrey, che fino a pochi giorni fa aveva escluso l’invasione turca in territorio siriano). Una decisione presa contro ogni ragione dettata dal buonsenso e che può avere solo conseguenze negative. Le riassumo, in breve.

Primo: il già citato, sanguinoso, conflitto tra turchi e curdi. Che apre una nuova ferita in una guerra che va avanti da otto anni e che ha prodotto più di mezzo milioni di morti e oltre 5,5 milioni di rifugiati. Secondo: un inedito assetto geopolitico, coi curdi siriani che potrebbero chiedere aiuto a Bashar al-Asad e ai russi, mentre gli Stati Uniti si tirerebbero fuori (insieme alla debole Europa) in una delle zone più esplosive del mondo, in cui l’Iran, già della partita accanto al regime di Damasco, giocherà un ruolo sempre più centrale. Terzo punto, con cui torniamo ai combattenti dell’Isis (circa 12mila) attualmente nelle prigioni curde: con un conflitto da affrontare, le Sdf non sarebbero più in grado di gestirli. I miliziani di Daesh potrebbero tornare a casa (gli europei, soprattutto) o – e qui si apre il quarto punto – dare vita, come vorrebbe al-Baghdadi, a un nuovo Califfato. Le cellule di terroristi, sparse nella Siria del Nord, non aspettavano altro. I più affidabili analisti di Medio Oriente lo stanno già dicendo: l’Isis è stato sconfitto, ma non è morto. La mossa di Trump lo farebbe nascere, di nuovo. E noi ci troveremmo in casa il boia di Raqqa.

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