La faccia pulita, con capelli e barba rasati di fresco. Sorride, così notiamo che gli manca un incisivo. Siamo seduti a un metro da lui, nella base delle Forze Democratiche Siriane (Sdf) di Rmelan, nella regione a maggioranza curda del Rojava, nord-est della Siria. Quello che ci troviamo davanti, però, non è un prigioniero qualunque, non è un semplice “cittadino” dell’ormai defunto Califfato. Il suo vero nome è Anwar Haddouchi, ma durante la guerra civile siriana e l’ascesa delle Bandiere Nere dello Stato Islamico si è fatto conoscere con il nome di battaglia di Abu Suleiman al-Belgiki, soprannominato Il Boia di Raqqa.

Il nom de guerre non è casuale: è in carcere per aver decapitato almeno cento persone, mentre il Belgio lo accusa di aver finanziato una delle menti degli attentati di Parigi e Bruxelles del 2015 e 2016. Sul web circola una sua foto con in braccio un bambino: è padre di quattro figli, ma dal 2014 ha indossato i panni del boia spietato che usava la sua lama per spegnere la vita di quelli che i miliziani in nero indicavano come kuffar, apostati.

Lui però giura: “Non ho mai impugnato un’arma, non ho mai ucciso nessuno per Daesh“. Ci dice di essersi pentito, che la sua avventura tra le fila dello Stato Islamico è presto diventata “un bad dream, un brutto sogno”, di voler “tornare a casa, in Belgio, e costruirsi una vita normale”.

Mente. Lo fa durante tutta l’intervista, anche quando, prima, sostiene di non aver “mai messo piede a Raqqa”. Solo pochi minuti dopo, però, si smentisce: “Ho visto un solo uomo ucciso da Isis. Credo fosse un poliziotto, a Raqqa”.

Ma c’è di più. Haddouchi non è uno dei tanti radicalizzati sul web o un soggetto instabile, finito nel giro degli Imam estremisti del Belgio, che un giorno decide di lasciare il proprio Paese, la propria vita, per abbracciare il sogno di una rinascita nella culla del Califfato. Nella storia del terrorismo di matrice islamista che ha sconvolto il mondo negli ultimi anni, Haddouchi non ha solo prestato le proprie braccia alla causa, ma anche la propria testa e i propri soldi.

Il suo nome appare nelle indagini del Ministero delle Finanze belga per un bonifico da 3mila sterline (poco meno di 3.500 euro) partito dal suo conto corrente e finito nelle tasche di Mohamed Abrini, amico d’infanzia dei fratelli Abdeslam protagonisti degli attacchi di Parigi del 13 novembre 2015. Abrini è stato poi identificato come “l’uomo col cappello”: è lui ad apparire nelle immagini delle telecamere di sorveglianza dell’aeroporto di Zaventem prima dell’attentato bomba del 22 marzo 2016 al terminal dello scalo brussellese. I soldi di Haddouchi, sospettano le autorità belghe, sono serviti a finanziare gli attacchi di Isis in Europa. “Non conosco i terroristi belgi – ci dice senza sapere che il suo nome, dopo l’incarcerazione nel marzo 2019, è finito sulle pagine dei giornali europei – Per arrivare qua ho chiesto in giro, ho cercato sul web. Ho ottenuto un numero di cellulare e sono partito come turista per la Turchia, nel 2014″.

Nel 2009 si è trasferito con la moglie, la radicalizzata e sua connazionale Julie Maes, nella città britannica di Birmingham, uno degli hub europei del terrorismo jihadista. Durante la sua permanenza di cinque anni in Gran Bretagna, il Boia di Raqqa ha percepito anche il sussidio per le famiglie meno abbienti. Soldi che, però, sono continuati a confluire nel suo conto corrente anche dopo la partenza per la Siria, nel 2014. Circa 10mila sterline (11mila euro) con le quali ha finanziato la sua permanenza in Medio Oriente e, probabilmente, il gruppo guidato da Abu Bakr al-Baghdadi.

Per incontrarlo sono serviti mesi di contrattazioni con le Sdf e decine di controlli di sicurezza. Quando arriviamo nella base di Rmelan, intorno alle 10, la videocamera si spegne. Si riaccenderà solo dentro un anonimo stanzino adibito a luogo per le interviste dei prigionieri che, volontariamente, si prestano alle domande dei giornalisti. Su di lui non ci viene fornita alcuna informazione: nome, luogo e modalità della cattura, anni passati tra le fila di Isis, età, nazionalità. Niente. “Motivi di sicurezza”, ci spiegano. Non sappiamo con chi avremo a che fare, non lo sapremo nemmeno durante tutta l’ora d’intervista. Lo scopriremo solo alla fine, quando, preso sotto braccio dalle forze speciali in passamontagna che lo riporteranno in cella, ci rivelerà il suo nome per esteso.

Quando si siede davanti a noi, quindi, non sappiamo di avere appena stretto la mano a un carnefice. Non sappiamo di aver parlato della bellezza di alcuni quartieri di Bruxelles, dell’ultima partita del Barcellona, la sua squadra del cuore, e di famiglia con una persona che quelle mani le ha usate per togliere la vita ad altri uomini e donne. Sappiamo solo una cosa, ce l’hanno ripetuta più volte i suoi carcerieri prima dell’intervista: “Tra i 12mila prigionieri che abbiamo in custodia, state attenti ai foreign fighter europei. A sentire i loro racconti, sono tutti innocenti. Ma non fatevi fregare, in queste prigioni ci sono anche personaggi di altissimo rango. Mentono, mentono tutti. E lo sanno fare bene”.

Le prime informazioni sul suo passato ce le fornisce lui stesso, appena accendiamo la videocamera: “Mi chiamo Anwar, ho 35 anni e vengo dal Belgio, anche se i miei genitori sono di origine marocchina”. La voce è bassa, calma, innocente. Sembra quella di chi si trova in quel posto per sbaglio, per errore, per uno scambio di persona. Il suo atteggiamento è ben diverso da quello di un altro prigioniero, di origine tedesca, che abbiamo incontrato solo pochi minuti prima e che ci ha respinto dopo due domande dicendo di non voler parlare con noi. Anwar è diverso, controlla il suo temperamento, le parole, i toni, le espressioni del viso che sfociano sempre in un sorriso e in qualche smorfia di apparente timidezza. In quel momento, non sappiamo chi sia, e il suo atteggiamento non ci aiuta. Anzi, quasi ci convince che quel 35enne, che dimostra meno della sua età, sia una persona che, in cerca di una nuova vita, si è persa nell’abisso dello Stato Islamico. “Quando ho deciso di partire per la Siria, i miei genitori erano tristi. Mi hanno detto che quella era la mia vita, che non potevano fermarmi. Ma erano tristi. Adesso sogno di avere un lavoro, prendermi cura della mia famiglia e mandare i bambini a scuola”.

Il suo racconto, però, si mostra presto contraddittorio, a tratti grottesco, come quando si corregge da solo, sostituendo la parola “Califfato” con “Daesh”, termine dispregiativo con il quale vuole trasmettere una posizione chiara sull’idea di Stato promossa da al-Baghdadi. Racconta di essere stato impiegato in uno degli uffici in cui si registravano gli arrivi dalla Turchia, a Tell Abyad, sul confine, per i primi sei mesi, ma di non aver mai visto traffico di merci, medicine o altri prodotti. “Ne ho solo sentito parlare – rivela successivamente – Combattenti di Isis curati negli ospedali turchi? Anche di questi ho sentito parlare, ma non ho mai visto niente”.

Dice di essere stato trasferito a Jarablus dopo sei mesi e di aver seguito tutta la ritirata delle Bandiere Nere fino all’ultima enclave di Baghuz. “Dopo pochi giorni mi sono accorto che la vita qua non era come ce l’avevano raccontata. Non potevo esprimere la mia opinione, se lo avessi fatto sarei stato in pericolo. A quel punto è iniziato il mio bad dream, il mio brutto sogno. Volevo andarmene – dice – ma non era possibile. Avrei messo a rischio la mia vita e quella della mia famiglia, visto che chi tentava la fuga veniva messo in prigione”. Poi, però, dice di essere riuscito a consegnarsi durante una delle più dure e sanguinose battaglie di Isis dal 2014.

Gli facciamo notare che la paura in cui racconta di aver vissuto per anni, cercando di mimetizzarsi tra i comuni cittadini, contrasta con le sue scelte di vita. Ha quattro figli: di dieci, sette, tre e un anno. Due di loro, quindi, sono nati sotto il vessillo del Califfato. “Sapete – si difende -, non puoi chiedere a tua moglie di privarsi della gioia di avere figli. Abbiamo provato a condurre una vita normale”.

Ci assicura che non ci sta mentendo: “Quello che posso dirvi su di me è che non combattevo. Ve lo direi, sono in prigione, perché dovrei mentire?”. Il motivo c’è e il Boia di Raqqa lo conosce bene, tanto che a fine intervista ci chiede anche se “ci sono novità”: il destino dei foreign fighter europei nelle carceri delle Sdf è ancora incerto. Le milizie a maggioranza curda hanno chiesto l’istituzione di un tribunale internazionale speciale nel Rojava che giudichi i crimini dei combattenti jihadisti. Nel frattempo, gli Stati Uniti hanno invitato i vari Paesi, soprattutto europei, a farsi carico dei foreign fighter di casa loro. Stati come Tunisia e Marocco stanno riportando indietro i terroristi partiti dalle loro città, mentre la Germania ha iniziato a riprendersi donne e bambini. Gli altri, con Gran Bretagna e Francia in testa, non ne vogliono sapere.

Non vuole essere processato da un tribunale internazionale, ci dice, “voglio essere giudicato nel mio Paese”. Il grande spettro rimane l’Iraq: Baghdad, a giugno, aveva già condannato a morte oltre 3mila terroristi jihadisti. La prospettiva di un trasferimento nel Paese confinante terrorizza anche il Boia di Raqqa: “Certo che ho paura. È normale, è umano. Non sono venuto qui con l’intenzione di morire per il Califfato, ma di vivere nel Califfato. Se avessi voluto morire, non avrei portato qui la mia famiglia”.

L’ipotesi in cui sperano i jihadisti, sia dentro che fuori dalle carceri curde, è quella di una nuova offensiva militare di Ankara nel nord del Paese, dopo quella che ha portato all’annessione di Afrin. L’idea di un’invasione turca strappa un sorriso anche ad Haddouchi: “Tutti vogliono essere liberi, è normale”.

Ma quel sorriso si increspa, fino a diventare una smorfia, quando gli viene chiesto se fosse in contatto con le cellule terroristiche belghe che hanno sferrato gli attacchi di Parigi e Bruxelles. Si affretta a rispondere semplicemente “no”, poi sospira. Non è più sicuro che la sua identità sia rimasta ben protetta. Non è più sicuro che il mondo ignori la sua storia all’interno dello Stato Islamico: quella del Boia di Raqqa, finanziatore di attentati in Europa e legato agli uomini che, nel 2015 a Parigi e nel 2016 a Bruxelles, hanno tolto la vita a oltre 120 persone.

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