È arrivato il momento dell’ultimo passaggio alla Camera del disegno di legge di riforma costituzionale, portato avanti tenacemente e coerentemente da sempre dal M5s e che prevede il taglio di 115 senatori e 230 deputati. Come è noto, la proposta ha come obiettivo, con la modifica degli articoli 56 e 57 della Costituzione, di ridurre il numero degli attuali 630 deputati a 400 e quello degli attuali 315 senatori a 200.

La riforma di natura costituzionale deve essere votata a maggioranza assoluta e può essere oggetto di referendum confermativo, se nella seconda votazione non raggiunge la maggioranza dei due terzi in ciascuna delle due camere. La discussione generale alla Camera – con pochi parlamentari presenti almeno all’inizio e pochi iscritti a parlare – dà materialmente l’idea di una prevedibile approvazione: infatti, se per il M5s l’approvazione rappresenta la realizzazione di un obiettivo dichiarato e perseguito inizialmente in solitaria, a poche ore dalla votazione sul testo l’adesione al taglio – bollata spregiativamente come “totalitaria” più che maggioritaria da Emma Bonino, fondatrice di +Europa – trova il consenso della Lega di Matteo Salvini, già a favore nei precedenti passaggi – anche se i leghisti non erano presenti all’inizio dei lavori -, quello di Fratelli d’Italia, quello “dovuto” di Pd, Leu e Italia Viva e quello altalenante di Forza Italia.

A ridosso dell’approvazione definitiva, condizione imprescindibile posta da Luigi Di Maio per far nascere il Conte 2 e accettata dal Pd, fieramente contrario al provvedimento fino al “ravvedimento operoso” che ha portato alla nascita del nuovo esecutivo, è difficile, sfogliando le pagine dei giornali o ascoltando i commenti di politologi, giuristi o addetti ai lavori a vario titolo, trovare giudizi favorevoli o almeno cauti apprezzamenti, anche se spesso si tratta degli stessi che hanno plaudito a misure ben più drastiche e contenute in riforme costituzionali che smontavano la carta Costituzionale quando a tentare di imporle al paese erano Silvio Berlusconi e Matteo Renzi.

C’è chi come Angelo Panebianco dal Corriere ci spiega “a chi giova veramente il taglio dei parlamentari” e cioè naturalmente ai cultori dell’antiparlamentarismo che mirano solo al “depotenziamento massimo della democrazia rappresentativa/parlamentare” a favore della democrazia diretta in versione digitale e “sono coerenti con una visione del mondo per la quale i Parlamenti, e quello italiano in particolare, sono potenziali luoghi di malaffare”.

Se il taglio dei parlamentari gioverà in termini di consenso al M5s – che per ora non sembra particolarmente premiato, almeno nelle intenzioni di voto – lo vedremo prossimamente. Ma ciò che sembra inoppugnabile è che se il Parlamento è stato percepito in Italia come luogo di malaffare, e purtroppo spesso non potenziale, il demerito o il merito non è certamente del M5s, ma forse di quelli che dall’interno per oltre un ventennio l’hanno degradato con traffici, corruttele, mercimoni di ogni genere, mentre le “opposizioni” erano conniventi o distratte e “i cani da guardia della democrazia” (i giornali) per lo più scodinzolavano.

Se, come conviene anche Panebianco, “nessuno può più credibilmente azzardarsi a formulare progetti istituzionali ambiziosi. Nessuno tranne i 5 Stelle”, a suo avviso rei di avere concepito una riforma “costituzionalmente ineccepibile nelle forme, ma eversiva nelle aspirazioni”, forse sarà perché dal 92 in poi, invece dell’annunciato rinnovamento, la politica si è avvitata sempre più stancamente in tatticismi, trasformismi, opportunismi senza prospettive e in visioni nemmeno di breve periodo, e quasi sempre le “riforme” sono state concepite come controriforme o peggioramento dell’esistente.

Ora fa solo sorridere sentir definire la riduzione del numero dei parlamentari, di cui si parla in modo inconcludente da decenni – per non ricordare i tentativi maldestri e pericolosi di introdurla con pacchetti che abbruttivano la Costituzione e respinti al mittente dai cittadini – come di un “attacco, culturale, politico e istituzionale, alla democrazia parlamentare” e come di una riforma talmente pericolosa e di tale potenzialità eversiva da non poter essere normalizzata.

Se gli “altri balbettano” o “assumono posizioni poco credibili” e sembrano esclusi dal futuro (il riferimento è al Pd e a FI e lo prendo come un auspicio), non può il M5s far paura perché, a differenza degli altri, ha dei temi identitari a cui cerca di attenersi. È solo che da più di 20 anni Lega, Pd e FI “fanno proposte che sembrano solo strumentali, sconnesse da una qualsivoglia visione politica”.

Poi naturalmente sarebbe stato meglio, come ha pontificato Emma Bonino, che la riduzione drastica dei parlamentari fosse stata contestuale o successiva alle altre modifiche costituzionali riguardanti ruolo e funzionamento delle camere – e aggiungerei a una riforma elettorale che superi quanto prima l’abominevole Rosatellum concepito per favorire la “coppia” del Nazareno e azzoppare il M5s. Ma non siamo nel migliore dei mondi possibili, certamente non da oggi. Comunque la road map delle riforme è già stata tracciata e prevede anche la presentazione del disegno di legge con la riforma elettorale entro la data della promulgazione del taglio dei parlamentari e cioè entro dicembre.

Come ha osservato Guido Neppi Modona, un giurista rigoroso e autorevole alieno alle ospitate mediatiche, la riforma può essere “demagogica” solo se si concentra sul risparmio, ma “con meno posti i partiti saranno costretti a una selezione più rigorosa” e non avranno più a disposizione una massa che vota a comando. Se non vigileranno su moralità, preparazione e affidabilità dei candidati, i partiti saranno più facilmente e fortemente penalizzati a livello elettorale. Quanto al ruolo dei nuovi parlamentari, sarà più rilevante di prima: con buona pace dei teorici della riforma che vuole affossare la democrazia rappresentativa.

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