I monumenti, se li guardiamo con attenzione, sono sempre sgradevoli. Sono un pugno nello stomaco alla nostra arroganza di contemporanei, perché ci restituiscono una disdicevole e irriconoscibile immagine di noi stessi. Ci ricordano quello che eravamo, quello che verosimilmente anche noi stessi saremmo stati e forse ancor oggi siamo.

Sono sempre – almeno in parte – la prova provata della nostra cattiva coscienza. Dagli archi degli imperatori romani alle piramidi egizie, dalle grandi cattedrali ai palazzi regi, per arrivare agli eroi risorgimentali, alle (numerosissime) vestigia del fascismo e del nazismo fino ai monumenti a Mao, Stalin, Pol Pot e ai vari T-34 lasciati a ornare le piazze di Praga o Budapest dagli invasori sovietici… il mondo è pieno di segni dei nostri crudeli comportamenti e delle circostanze che li hanno resi possibili. Questo vale anche per il mausoleo eretto nel Valle de Los Caídos, che proprio di questi giorni gli spagnoli vorrebbero rivoluzionare, liberandolo della tomba del generalissimo Franco.

Il sacrario che attualmente ospita le spoglie del dittatore, infatti, non è semplicisticamente un tempio a tutti i caduti spagnoli di ogni bandiera, ma è soprattutto un mausoleo allo stesso caudillo e al ruolo che si era assegnato di “pacificatore” della Spagna. In tal modo il trasferimento altrove delle sue spoglie non potrebbe essere un semplice trasloco, ma diverrebbe lo stravolgimento del significato e delle finalità del monumento, per come era stato concepito.

E’ troppo facile: non vale distruggere i monumenti del passato, è una vigliaccheria intellettuale, oltre che un segno di debolezza. Indipendentemente dal contenuto ideologico. Non si può rimuovere ciò che non ci piace, e anche se le tracce della storia si possono cancellare (mai del tutto), sicuramente non possiamo cambiarla. Perché i tedeschi hanno preferito eliminare ogni traccia del nazismo? Per odio verso il nazismo o per l’incapacità di assumersi il peso di quell’esperienza? Con la storia e le sue prove sarebbe più onesto fare i conti sul serio, per non dimenticare i nostri errori e se possibile non ripeterli.

Nel breve periodo, i monumenti servono per innalzare e cantare le gesta di chi li realizza. Ma questa liturgia solitamente dura molto poco e già alcuni anni dopo la storia è in grado di restituire un’immagine più vera di queste realizzazioni, trasformandole in testimonianze di errori e debolezze diffuse. I monumenti diventano fatalmente non tanto e non più solo un osanna virtuoso agli individui che si erano prefissi di onorare, ma si trasformano nel segno collettivo da parte della società del tempo della fama, del consenso e dell’assenso di cui godettero gli artefici. Essi non furono eretti solo dalla forza dei potenti, né restano a gloria imperitura di chi li volle.

Oggi, una statua di Mussolini, Stalin, Lenin o Lincoln non ci fa rabbia, né ci dice molto delle virtù di questi uomini: ci parla soprattutto delle moltitudini, dei popoli, dei contesti storici che resero possibili quegli errori, dei crimini di quanti ritenevano di poter occultare la realtà con delle semplici statue.

La distruzione progressiva effettuata subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale di ogni traccia concreta delle gesta e delle politiche del fascismo dalle strade e dagli edifici italiani – in alcuni casi criminale, come quella del grandissimo affresco di Sironi realizzato all’Università di Roma – palesemente fu più che altro il tentativo degli italiani di rimuovere le prove della loro pessima coscienza, che li aveva portati ad aderire al fascismo con così generalizzato – ma allora inconfessabile – trasporto. Era in effetti la distruzione di noi stessi, non la cancellazione del fascismo, che non poteva essere realizzata. Questo vale, con i necessari distinguo, per le vestigia di ogni regime, di ogni epoca, di ogni dove. Il desiderio di distruggere o alterare è un atto senza senso, ipocrita e sciocco, capace solo di porre le basi per ulteriori delitti, ulteriori errori e distruzioni.

Certo, faticheremmo oggi a convivere con una bella statua equestre del Duce che imbraccia la Spada dell’Islam. Ma ci aiuterebbe a ricordare cosa non dobbiamo più fare. Ci potrebbe dare una mano a prendere coscienza che certi avvenimenti non accadono per caso, per la violenza di un potere cieco, ma sono resi possibili dal consenso o perlomeno dall’ignavia di moltitudini. Non basta stendere un velo pietoso: sarebbe meglio prendere atto che le dittature, i delitti del passato non sono figli di un solo padre, ma hanno molti padri e molte madri, non tutti ugualmente responsabili, ma in numero sufficiente a obbligarci a un esame di coscienza collettivo.

La distruzione di un monumento è sempre una scorciatoia pericolosa. Nel caso della guerra civile spagnola e della seguente dittatura franchista, ad esempio, è difficile pensare che giusto e sbagliato fossero rigidamente separati. Anche qui, come nel caso del fascismo, del nazismo, del comunismo o del maoismo, alcuni pochi si opposero, molti altri – la stragrande maggioranza, non educata al valore della libertà – preferì adattarsi alla situazione, non ribellarsi, spesso cercando di trarre dei vantaggi dalle circostanze o in ogni caso sopportando l’insopportabile. Anche oggi, non tutti in Cina sono come Liu Xiabo.

Sicuramente, le dittature sono il frutto della violenza, ma soprattutto sono l’esito della debolezza e dello scarso amore per la libertà. Per questo ciò che resta – le tracce, le vestigia, le opere delle dittature – sono sempre prima di tutto i monumenti alla nostra passività, alla nostra debolezza, alla nostra complicità con la violenza di pochi. E non andrebbero mai eliminate. Cancellarle come stanno cercando di fare non solo gli spagnoli è un bruttissimo passo indietro per rafforzare il nostro amore per la libertà.

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