I Google Glass, gli occhiali hi-tech del gigante di Mountain View, sono passati alla storia come uno dei progetti fallimentari dell’azienda. In realtà sono stati convertiti a prodotto per uso professionale, e di recente una sperimentazione clinica condotta da ricercatori della Stanford University Medical School vi fa riferimento come potenziale base di sviluppo per costruire nuove tecnologie a sostegno dei bambini affetti da autismo. Non si parla di una cura della malattia, ma di potenziali supporti (robot o visori) che siano di aiuto ai medici per insegnare ai pazienti ad apprendere come identificare le emozioni umane o a mantenere un contatto visivo.

La ricerca è stata pubblicata sul Journal of the American Medical Association, Pediatrics ed è stata ripresa dal quotidiano New York Times. Nelle conclusioni dello studio si ipotizza che strumenti come i Google Glass, usati in ambito terapeutico sotto la guida di personale medico esperto, e seguendo un programma ben preciso, potrebbero aiutare i bambini affetti da autismo a comprendere le emozioni e ad interagire in modo più diretto con chi li circonda.

Il condizionale è d’obbligo perché fra una potenzialità e l’applicazione pratica di una tecnologia in ambito terapeutico trascorrono anni, durante i quali i medici devono condurre test rigorosi e trial clinici prima di tirare le conclusioni.

Detto questo, tutto è partito da un’idea di Catalin Voss, matricola di Standford che nel 2013, poco dopo l’annuncio di Google Glass, iniziò a progettare un’applicazione per questi occhiali che permettesse al cugino, affetto da autismo, di riconoscere semplici immagini. Voss è oggi un ricercatore, e lavorando con Dennis Wall, professore di Stanford specializzato nella ricerca sull’autismo, ha avviato una sperimentazione di due anni che ha coinvolto 71 bambini. Essendo una prima fase, ha interessato pazienti con problemi molto diversi, sia in forma grave sia in forma lieve. Secondo quanto riferito dai genitori, i bambini che hanno usato gli occhiali e il software a casa sembravano mostrare miglioramenti del comportamento adattivo. Miglioramenti in linea con quelli dei pazienti seguiti con terapia tradizionale, in clinica. In questa fase tuttavia si ha l’impressione dei genitori, che non è un dato clinico. Tuttavia è una premessa perché il team di Stanford prosegua con altre sperimentazioni. Ci vorranno anni per avere risultati attendibili, ma l’importante è avere una risposta positiva o negativa, non quanto tempo ci si impiega.

La sperimentazione della Stanford non l’unica in corso in relazione ad autismo e Google Glass. La start-up Brain Power del Massachusetts sta usando i Google Glass come supporto educativo per i bambini autistici nelle scuole, per aiutarli a mantenere un contatto visivo. Robokind, start-up di Dallas, sta applicando le soluzioni dei Google Glass a un robot che imita le emozioni di base e cerca di stabilire un contatto visivo con gli studenti.

I tentativi non mancano, alcuni finiranno nel dimenticatoio, qualcuno potrebbe avere esiti veramente utili. Non resta che attendere.

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