Torniamo così all’oggi. In termini di occupazione la riforma del lavoro ha pagato. La disoccupazione è scesa al 13%, un livello ancora alto ma dimezzato rispetto ai picchi del 2012. Non ha, funzionato invece, in termini di qualità dei posti creati. Il governatore della Banca di Spagna Pablo Hernandez de Cos ha ammesso che la riforma “ha avuto successo nel premettere l’aggiustamento salariale che favorisce l’occupazione ma non lo ha avuto nella parte in cui avrebbe dovuto agevolare un passaggio dai contratti a termine a quelli stabili”. Dal 2010 il costo del lavoro spagnolo è sceso del 14%. Fabio Fois, senior economist di Barclays che ha molto studiato le economie del Sud Europa, sottolinea come la bolla immobiliare avesse prodotto una situazione in cui i salari erano troppo elevati in rapporto alla produttività del lavoro. “L’inflazione di base spagnola è bassa”, spiega, “quindi, in termini reali, la perdita del potere di acquisto delle buste paga è stata relativamente contenuta”. Questo spiega un altro elemento messo in luce da Fois. Anche nei momenti difficili l’economia iberica ha potuto contare sullo  “zoccolo duro” della domanda interna, consumi privati e investimenti sia domestici sia esteri.

Dolorosi da sopportare, salari più bassi hanno però consentito al paese di far scendere la disoccupazione e di guadagnare competitività sui mercati internazionali. Oggi la quota di export incide sul Pil per il 33%, 8 punti percentuali in più rispetto al periodo della crisi. E, per la prima volta, i conti con l’estero sono in avanzo anche in una fase di espansione economica dopo che per anni il paese ha accumulato squilibri verso l’estero che costituiscono un altro fattore potenzialmente destabilizzante.

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