“Il carcere non è un luogo dove ‘marcire’, piuttosto una monumento che celebra i punti dove la nostra società ha fallito nel costruire convivenza” così Danilo De Luise della Fondazione San Marcellino sintetizza la visione che ha ispirato il progetto di ‘mediazione dei conflitti tra pari‘ all’avanguardia che l’associazione genovese porta avanti dal 2015 all’interno della II Casa di Reclusione di MilanoBollate, a margine della presentazione del libro ‘Mediazione comunitaria in ambito penitenziario’ curato da Juan Pablo Santi.
“La mediazione comunitaria aiuta le persone ad accettare i conflitti e offre le capacità per affrontarli in modo nonviolento – spiega Santi, responsabile del progetto di ricerca/azione – Non solo cerchiamo di migliorare il rapporto dei detenuti con se stessi e e tra loro, ma proviamo anche a offrire strumenti personalizzati per affrontare con maggiore consapevolezza e preparazione il reinserimento nella società”.
L’idea di contrastare l’escalation di conflitti che inevitabilmente si generano in uno spazio chiuso come il carcere e ridurre la tendenza cronica delle carceri a trasformarsi in discariche sociali che riproducono marginalità, nasce dal confronto con l’esperienza del Ce.Re.So n° 1 di Hermosillo a Sonora, in Messico. “Un luogo di repressione e concentramento – spiega Mara Morelli, presidente dell’Associazione di Mediazione Comunitaria – dove fino al 2006, prima di lanciare questa modalità di affrontare i conflitti, che ora è riconosciuta come buona pratica a livello internazionale, si verificavano continuamente risse durante le quali moriva un detenuto ogni mese. Se un metodo come questo ha funzionato lì, ci siamo detti, sicuramente avrebbe funzionato altrettanto riadattandolo alla diversa e meno estrema situazione italiana, e così effettivamente è stato”. “Se il carcere è spesso un luogo inumano, inumano non è chi dentro ci vive o ci lavora –  ha sottolineato nel suo intervento Adriano Patti, magistrato e giudice della Corte Costituzionale – quindi non può venire ridotto alla sola pretesa punitiva dello Stato”.
“L’idea di fondo – spiegano gli operatori sociali – in contro tendenza con il vento forcaiolo e vendicativo che sembra soffiare in Italia, portando molti a invocare anche un’estensione estrema della legittima difesa che darebbe più valori e diritti alle ‘proprie cose’ che alla vita umana, è quella che non sia aumentando la repressione e l’isolamento, ma al contrario socializzando i problemi e conflitti, che si aumenta la sicurezza personale e collettivi”. Dov’è stato applicata, questa modalità che disinnesca gli scontri violenti formando alla capacità di dialogo ha ridotto il tasso di recidiva e agevolato anche il dialogo con le famiglie, arginando quindi almeno in parte i problemi delle sovraffollate carceri italiane
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