Partiti in cerca di un lavoro. Gli emigranti esistono anche in Italia. Vanno verso il nord del Paese, verso l’Europa, verso l’America. Lasciano la famiglia come a inizio Novecento, con una ideale “valigia di cartone”. Ecco alcune delle loro storie raccontate a valigiadicartone.ilfatto@gmail.com

Sono del Sud.
Mi sembrava, dopo tanti anni, di avere lenito la pena delle partenze di mio padre per Basilea (Svizzera); ma, ogni volta che osservo mio figlio preparare la sua valigia, si rinnova in maniera lancinante. E rivedo mia madre, con mani mute e misurate, poggiare sul letto la biancheria stirata e accuratamente piegata. E rivedo mio padre, con mani nervose e stanche, prendere la valigia di cartone dall’angolo accanto all’armadio, poggiarla sulla cassapanca, e aprirla dopo averne slacciato lo spago. E rivedo le valigia, compagna della sua vita, sbadigliare un’inutile malinconia, stremata dal triste rito di quelle mani tremanti, intenti a premere gl’indumenti per recuperare altro spazio.

Mani grandi, febbricitanti: pur desiderando prendere a pugni il mondo, continuavano lentamente a dannarsi l’anima richiudendo la valigia e rinforzandola di nuovo con lo spago. Incerte intimidite indifese. Confuse, arrabbiate. Solitarie come canne al vento. Tagliavano poi il pane a fette; vi univano lentamente il companatico; e avvolgevano tutto in un canovaccio, insieme a un paio di mele rosse e a un pugno di noci, asciugando qualche lacrima ostinata, salata spenta ribelle.

Come sono tristi le mani degli emigranti! Quando tutto era pronto per il viaggio, mio padre ci accompagnava a letto baciandoci lentamente il viso, la fronte. E poi ancora … e ancora. Con le mani ritornava sulla fronte, sul naso: spostava qualche ciocca di capelli dietro alle orecchie, fissava negli occhi i particolari di ognuna di noi, e respirava forte un istante … solo un istante. Intimidita spiavo ogni suo dettaglio: lo sguardo dignitoso e fiero, le affettuosità lievi e sostanziali, lo sconforto lento e controllato.

Nulla sfugge ai figli degli emigranti! Per questo motivo, durante la prima partenza nella notte della Befana, e durante quelle successive, rimasi vigile e attenta a ogni fruscio delle ore e dell’alba. Che, anticipata da passi sommessi, bisbigli concitati e frettolosi, mi trovò sveglia: attenta alla corriera in arrivo. Mio padre venne a salutarci nel buio del sonno.

Sicuro di non essere visto, si avvicinò ai nostri lettini: sentivo i suoi singhiozzi trattenuti mentre stringeva a sé, prima l’una, poi l’altra sorella. Sentivo il suo respiro su di me: sveglia e accorta, a sua insaputa. Sentivo riversare sulle mie piccole spalle le sue debolezze di padre: senza riserva, sicuro del mio sonno. Sentivo le sue mani calde avvolgere il mio viso, e le sue lacrime bagnare i miei occhi, mentre si stringeva indifeso al mio corpicino esile.

Intanto tenevo fermo il dolore nelle manine, chiuse a pugni; e pur desiderando aggrapparle al suo collo, e gridargli: – Papà, ti prego, non partire! -, le chiudevo ancora … e ancora. Trovando la forza di fingere, trattenevo, negli occhi chiusi e nel respiro regolare, la mia pena adulta per non ferire la sua dignità umile, vagante di bambino. Sentivo i singhiozzi nelle sue mani. Sentivo i suoi pugni vibrare contro la parete delle scale, e poi sulla porta di casa, richiusa alle sue spalle. Sentivo i suoi passi baciare l’acciottolato e perdersi nel vento.

Solo allora, sicura della mia intimità, portavo le mani al volto e piangevo, piangevo il mio dolore di bambina, mentre il clacson della corriera, ultimo addio, portava via con sé i mesti lamenti dell’alba. Come sono tristi le lacrime dei figli degli emigranti! Come sono tristi le lacrime dei giovani emigranti!

Sognando il Sud, portano altrove il loro avvenire: con gli affetti che si fanno desiderio; con il presente che si fa malinconia; con la luna che si fa compagnia. E noi, figli di emigranti, e madri e padri di figli emigrati, soli: con i giorni senza futuro; con le sconfitte senza speranza; con l’amarezza senza conforto. Vecchi soli tra vecchi: con le lacrime impigliate nei rami delle nostre querce, come passeri sui fili elettrici al sole d’agosto, continuiamo, con il rimorso stretto nei pugni chiusi, ancora a sognare il Sud.

Maria Pia Lorenzo

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