Dopo tre giorni di intensissime negoziazioni, i ministri dei principali paesi produttori di petrolio hanno stabilito di imporre un importante taglio alla produzione per dare al mercato un forte segnale di discontinuità. Dopo l’applicazione delle sanzioni all’Iran, nel mese di novembre, il mercato del greggio ha infatti fatto registrare una caduta dei prezzi che non ha paragoni nella storia recente. L’Arabia Saudita, al comando di un’indebolita Opec, vede oggi nella Russia l’unico partner affidabile con cui poter stabilizzare il mercato e far salire nuovamente le quotazioni del petrolio. Mai prima d’ora Mosca ha avuto una simile influenza e la sinergia con Riad apre scenari, sino a pochi anni fa, totalmente impensabili.

A Vienna è arrivata l’intesa, finalizzata al taglio congiunto di 1,2 milioni di barili di petrolio rispetto il volume commercializzato a ottobre. Una misura che toglierebbe dal mercato, secondo varie fonti, circa il 3% della produzione Opec, ovvero 800mila barili al giorno. Il restante è sulle spalle dei paesi NOPEC, guidati dalla Russia e di cui fanno parte altri 12 stati, fra cui Azerbaijan e Brasile, Sud Sudan, Brunei e Malesia. Il risultato è oggi un aumento di oltre il 4% del prezzo del greggio. Un vero e proprio schiaffo alle richieste, avanzate da Trump, di assicurare un “taglio delle tasse” ai consumatori.

Libia, Nigeria e Iran contrari all’accordo – Il vertice si era aperto con l’annuncio del ritiro da Opec, a partire dal 2019, del Qatar. Il paese è intenzionato a concentrarsi nel futuro sulla produzione di gas naturale, di cui è il terzo al mondo per riserve. Per il mercato petrolifero Doha rappresenta soltanto un attore di secondaria importanza e molti, nel nostro paese, hanno sopravvalutato il significato del suo gesto. Di ben altra importanza e peso, invece, è stato l’atteggiamento ostile all’accordo di stati come Libia, Nigeria e Iran. I primi due furono “graziati” dai precedenti accordi, viste le turbolenze interne. La tensione ha raggiunto un punto talmente alto che ieri, dopo voci ricorrenti che davano l’intesa assai più complicata del previsto, il Brent è calato sotto i 60 dollari al barile. Mentre alla Libia sembra essere stata garantita l’ennesima deroga, estesa anche al Venezuela, la Nigeria provvederà con ogni probabilità a un taglio simbolico della produzione. Anche l’Iran ottiene un’esenzione, che nell’epoca delle reintrodotte sanzioni americane è un ottimo risultato per Tehran.

Essenziale il contributo di Mosca. D’intesa con l’Arabia Saudita – Un accordo che non sarebbe stato possibile senza il contributo essenziale di Mosca. Neppure l’Unione Sovietica, al picco del suo potere, aveva ambito a condizionare così profondamente la compravendita dell’oro nero. Oggi, Russia e Arabia Saudita garantiscono così un sistema, avviato nel 2016 e formalizzato come Opec+. Se vi siete chiesti il perché della stretta di mano e dell’abbraccio caloroso fra il principe Mohammed bin Salman e Vladimir Putin, durante il G20 in Argentina della scorsa settimana, la risposta viene in larga parte proprio dall’intesa che intercorre fra i due paesi, alla guida congiunta di un’alleanza petrolifera dalle straordinarie risorse. Un toccasana per le finanze di Riad, colpite duramente dalla crisi dei prezzi delle materie prime del 2014. Una gigantesca falla aperta nelle riserve ufficiali del paese, passate dai 732 miliardi di dollari nel 2014 a 496 nel 2017. Una perdita di oltre il 30% e che nessuna strategia adottata dal governo saudita era stata in grado di fermare. Infine, dopo due anni, la collaborazione ha dato frutti insperati, riportando il petrolio a livelli record (86,29 dollari al barile per il Brent lo scorso 3 ottobre) e la bilancia saudita a un attivo di 11 miliardi, il primo dopo quattro anni.

Durante il summit dello scorso giugno, sempre nel formato Opec+, Arabia Saudita e Russia avevano garantito l’aumento complessivo dell’1% della produzione mondiale di greggio. Il Presidente americano si era spinto ad annunciare in un tweet che lo stesso Principe aveva personalmente promesso di incrementare la produzione, potenzialmente sino a 2 milioni di barili. Una iniziativa giustificata anche dalla crisi venezuelana. La situazione si è poi capovolta a novembre, da alcuni analisti descritto come “il peggior mese dell’ultimo decennio”. Il Brent ha perso in soli 30 giorni circa il 23% del valore, facendo temere un nuovo crollo simile a quello del 2014. A determinare questa situazione vi sono da una parte le esenzioni concesse da Washington a 8 paesi, Italia compresa, chehanno rallentato la scomparsa del petrolio iraniano dal mercato. Dall’altra vi sono i dati positivi riguardanti le riserve americane. Anche se soltanto per una settimana, infatti, gli Stati Uniti sono diventati per la prima volta, dopo 75 anni, produttori netti di petrolio.

Possibile contropartita sulle forniture militari – Ecco allora la chiamata di Riad, a cui Mosca avrebbe risposto positivamente già nel corso dell’ultimo summit del G20. Secondo quanto riportato dallo stesso Putin nella conferenza stampa a margine dell’incontro con il Principe, i leader dei due paesi avevano raggiunto un patto per continuare la cooperazione anche nel 2019. Ora il Ministro dell’Energia russo Alexander Novak, volato a Vienna già mercoledì scorso, impegna la Russia a tagliare circa 200.000 barili di produzione al giorno. Una decisione che va molto oltre le aspettative precedenti il vertice. Una mossa che potrebbe aver richiesto una contropartita, su altri tavoli, per puntellare l’accordo. Da tempo si discute dell’interesse di Riad verso il sistema missilistico S-400 di fabbricazione russa, acquistato recentemente anche da nazioni che hanno forti legami militari con gli Stati Uniti come Turchia e India. Un’intesa in campo militare irrobustirebbe ulteriormente l’asse fra Mosca e Riad, su cui il caso del giornalista Khashoggi non sembra aver avuto particolare conseguenze.

Per quanto riguarda la cooperazione in campo energetico, il giovane Principe ereditario punta a innovare le fonti produttive del paese, costruendo diverse centrali nucleari e allontanando l’Arabia Saudita dal consumo di fonti fossili, le quali verrebbero così concentrate nell’export. Rosatom, la compagnia di stato russa, è stata ammessa alla partecipazione della gara finale per la realizzazione di diversi reattori. Un programma di investimenti il cui budget nei prossimi 20 anni ammonta a circa 80 miliardi di dollari e al quale anche Washington intende partecipare.

Twitter: @Frank_Stones

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