Sentiva il vento gonfiare le vele dell’Europa, un anno fa, il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, quando fece di fronte al Parlamento europeo il discorso sullo stato dell’Unione 2017: archiviato il 2016, l’annus horribilis del referendum sulla Brexit e dell’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti, foriera (come poi è stato) di sentimenti anti-europei, l’Unione aveva brillantemente superato gli ostacoli delle elezioni olandesi e di quelle francesi e s’accingeva senza troppi timori a quelle tedesche. L’asse Parigi-Berlino doveva uscire confortato e rinsaldato nelle sue pulsioni verso una maggiore integrazione, nonostante – anzi, forse grazie – alla Brexit.

Invece, l’anno è trascorso senza che l’Europa sfruttasse il vento a favore: il voto tedesco, pur senza mettere in discussione l’Ue, ha seminato dubbi nel campo della cancelliera Merkel e i successivi – soprattutto in Italia, ma anche in Croazia e ora in Svezia – hanno reso concreta la possibilità che l’anno prossimo, dalle elezioni europee del 26 e 29 maggio, esca un Parlamento a maggioranza relativa euroscettica, specie se si sommeranno gli euro-scetticismi xenofobi e nazionalisti di destra e quelli di sinistra, che hanno in comune i tratti populisti e sovranisti. Il crinale non è più destra/sinistra, ma apertura/chiusura, osserva Nathalie Tocci, direttore dell’Istituto Affari Internazionali.

Così, oggi, Juncker è parso più preoccupato che ispirato. All’ultima passerella – di questi tempi, l’anno prossimo, l’Assemblea di Strasburgo sarà già stata rinnovata e il Consiglio europeo avrà probabilmente già designato un nuovo presidente della Commissione europea -, il presidente dell’Esecutivo voleva ribadire l’ineluttabilità dell’Unione per evitarne la disgregazione più che indicare obiettivi e priorità. Quando ha detto che questa è l’ora delle decisioni, non ci credeva neppure lui: con i voti odierni sulle sanzioni all’Ungheria, per le violazioni dello stato di diritto, e sul copyright, questo Parlamento a fine corsa ha forse sparato le sue ultime cartucce. Il resto sarà qualche salva dimostrativa, di qui alla fine dell’anno, e poi campagna elettorale fino alla primavera.

Soffia vento di tempesta; e la nave dell’Europa ammaina saggiamente le vele. Ma Juncker , in veste “capitani coraggiosi”, tiene la barra del timone sui fari della pace salvaguardata per oltre 70 anni, della crisi superata con 239 milioni di europei al lavoro – mai così tanti – e 12 milioni di posti creati dal 2014 a oggi, del salvataggio della Grecia (costato però caro ai greci), della difesa europea, d’una politica dell’immigrazione comune che ancora non c’è – ma gli arrivi sono calati del 90% -, del rapporto da incrementare con l’Africa “continente cugino”, delle posizioni di politica estera da decidere a maggioranza qualificata .

“Multilateralista convinto”, sorpreso di doversi confrontare con “l’unilateralismo irrispettoso d’accordi ed esigenze” – che pare un ritratto di Donald Trump -, Juncker vede scoccare nella bufera l’ora della sovranità europea, “mai indirizzata contro altri”: un’Europa che non è né fortezza né isola, ma che offre agli europei l’unica dimensione sovrana capace di difenderli e di rappresentarli, perché “siamo troppo piccoli per fare da soli”, ciascuno per conto suo.

Sarà pure una nave in tempesta, l’Unione. Ma se l’abbandoniamo e caliamo in mare le scialuppe, siamo su gusci di noce in mezzo ai marosi.

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