C’era una volta un’impresa d’interesse nazionale. Una di quelle che interessano ai politici perché portano consenso e i privati per il fascino irresistibile della scommessa “testa vinco io, croce perdono i contribuenti”. Per molti anni la catena di sant’Antonio Sussidio-Proteggo-Assumo-Lavoro-Ti Voto aveva funzionato egregiamente, salvo poi infrangersi contro alcuni dettagli non preventivati in precedenza, come la concorrenza di operatori stranieri, che lo Stato-socio-a-perdere non poteva più tenere a bada, la minore disponibilità di fondi-a-perdere da parte di detto Stato e le complessità tecnologiche di un settore industriale molto maturo.

Proprio quando la società in questione era sull’orlo del fallimento, e rischiava di mollare una sberla miliardaria alle banche creditrici, venne chiamato a dirigerla un ometto occhialuto al quale dell’interesse nazionale interessava il giusto. Chiamato ad occuparsi degli interessi degli azionisti, riuscì in un’impresa che sembrava impossibile: tagliò il cordone ombelicale con la politica, che stava strangolando l’azienda e rinegoziò alcuni contratti che risultavano fondamentali per la sopravvivenza dell’impresa. Un solo contratto, molto grande, era con un concorrente e potenziale acquirente, che decise di pagare una cifra importante, pur di non essere costretto ad accollarsi l’azienda-problema (pensate un po’ come doveva essere messa male). Tanti altri contratti più piccoli erano verso i lavoratori che, in maggioranza decisero che era meglio un lavoro a condizioni meno buone che nessun lavoro.

Neanche il nostro ometto con gli occhiali, molto bravo con le ristrutturazioni aziendali, poteva tramutare in oro i metalli vivi e riuscire a fare buoni utili rimanendo concentrato nel paese delle imprese d’interesse nazionale. Così per rispettare il proprio mandato nei confronti degli azionisti, continuò a fare quel che sapeva fare bene: trovò un’altra impresa fallita, che poteva essere utilmente risanata e la fuse con quella che aveva già rimesso in piedi. Dunque le attività poco convenienti svolta in patria dalla prima, furono diluite dalle altre svolte nel resto del mondo dalla seconda, entrambe le aziende poterono beneficiare di una sana gestione comune e il nuovo gruppo industriale prosperò.

La morale della favola dovrebbe apparire ovvia, tuttavia il paese delle imprese d’interesse nazionale sembra non averla imparata affatto e si accinge a ripetere in peggio gli errori passati in nome dell’Alitalianità della compagnia di bandiera. Leggiamo sui giornali che il governo sta valutando di porre integralmente sotto il controllo dello Stato un’azienda che è stata pubblica, privata e parte pubblica e parte privata e che finora ha bruciato non meno di 7 miliardi e che continua ad accumulare perdite.

Per chi ama le favole moderne, si può certo immaginare uno scenario in cui sotto il controllo pubblico la compagnia area di bandiera possa tornare, se non in utile in pareggio, ma la realtà provata dalla difficile esperienza di Fca è profondamente diversa: la retorica delle imprese di interesse nazionale è il retaggio di un’epoca che non c’è più, porta sempre meno voti ai politici di turno e ha e costa sempre di più ai contribuenti.

Gestire un’impresa di grandi dimensioni in un settore maturo, in uno scenario competitivo globalizzato è attività complessa, rischiosa e palesemente fuori dalla portata di qualunque amministrazione pubblica (ricordiamo che il presidente Obama decise di affidare questo compito al compianto Marchionne, che aveva dimostrato le proprie capacità risanando Fiat). Inoltre, una gestione che non sia nell’unico interesse degli azionisti, finisce per posticipare le scelte più dolorose in termini di ristrutturazione interna, che sono anche quelle realmente indispensabili per portare a termini il risanamento.

C’è da augurarsi che l’Alitalianità rimanga un vezzo propagandistico e l’esecutivo non porti a termine l’ennesimo intervento nei confronti di una compagnia che ha già drenato fin troppe risorse dei contribuenti.

@massimofamularo

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