È probabile che per la maggior parte della popolazione italiana, le convinzioni di Silvana de Mari rappresentino una variante ultraconservatrice, retriva e fondamentalista del più generale atteggiamento che la religione cattolica ha nei confronti dell’omosessualità. In ogni caso mi pare che oggi a distanza di 30 anni dalla derubricazione dell’omosessualità dei disturbi della sfera psichica e del riconoscimento dell’orientamento omosessuale come variante naturale della sessualità umana, le dichiarazioni della dottoressa De Mari lascino a molti un sentore di estraneità e di convinzione ideologica.

La De Mari, che al secolo è un medico, si dichiara persuasa che l’omosessualità sia una condizione patologica e che sia fortunatamente (secondo lei!) reversibile, ha ipotizzato che gli iscritti al Circolo di cultura omosessuale Mario Mieli di Roma “provino simpatia” per “pedofilia, necrofilia e coprofagia” e si avventura a dichiarare una presunta correlazione tra gay pride e picchi di diffusione di epatite nella popolazione gay. Sono convinzioni che si commentano da sole e che in passato hanno fruttato alla De Mari almeno due denunce penali e un rinvio a giudizio disciplinare presso l’ordine dei medici di Torino.

di Gisella Ruccia

Non c’è dubbio che l’aspetto più interessante del processo alla dottoressa che “si batte per il suo diritto all’omofobia” sia il tema della legittimità. Per alcuni, infatti, il caso è diventato il simbolo di una libertà ingiustamente limitata. L’articolo 21 della Costituzione recita infatti: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Un diritto fondamentale in una società democratica, i cui principi derivano da Voltaire (“Non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu possa dirlo”) e dall’illuminismo.

Ciascuno può dire di tutto e ovunque, senza limiti, indipendentemente dal proprio ruolo sociale? Ovviamente non è così, dato che le parole, specie quando sono presentate come verità scientifiche, hanno un valore performativo, cambiano la realtà. Ci sono quindi ottime ragioni per cui si può essere giudicati sulle parole dette, specie se si tratta di dichiarazioni pubbliche. Presento quindi le tre principali ragioni per cui il procedimento sul caso “De Mari” è non solo opportuno, ma doveroso.

1. La prima ragione è che il diritto alla libertà di espressione, come ogni altro diritto, non è assoluto ma ha sue naturali limitazioni. Ad esempio, non solo non possiamo insultare o diffamare pubblicamente nessuno, né dire che qualcuno ha commesso un reato senza incorrere in sanzioni penali e pesanti risarcimenti civili, ma non possiamo neppure diffondere i dati sensibili di altri senza averne l’autorizzazione. Inoltre, per i professionisti sanitari c’è l’obbligo di dimostrare la verità di ciò che si afferma, ovvero la coerenza tra le proprie convinzioni e quelli della comunità scientifica di riferimento.

2. La seconda ragione ha che fare con l’esigenza di pesare non solo il valore di verità ma anche le conseguenze delle proprie affermazioni. Sono già due i casi di medici radiati per avere assunto posizioni antivacciniste, considerate pericolose per la salute pubblica sia per l’allarme che procurano alle famiglie sia per la possibilità di pregiudicare l’immunità di gregge che impedisce la diffusione di patologie ormai pressoché dimenticate nei Paesi occidentali. La libertà di pensiero è quindi subordinata al diritto alla salute. Ora, quali conseguenze può avere la diffusione di idee discriminatorie, ad esempio per un giovane omosessuale o per la sua famiglia?

3. Infine, un limite alla libertà di espressione ampiamente riconosciuto riguarda proprio le idee fondate sulla superiorità e la discriminazione. È il principio della legge Mancino, che sancisce una limitazione alla libertà di espressione sulla base del contrasto alle discriminazioni verso etnie, nazionalità o religioni. La Corte Costituzionale (14 settembre 2015, n. 36906) ha confermato la bontà di questo principio chiarendo definitivamente che nel nostro paese “la libertà di manifestazione del pensiero cessa quando travalica in istigazione alla discriminazione”.

Quindi, non tutto si può dire e non sempre. Ciò che stupisce forse di più è che la De Mari, sedicente omofoba militante, non venga anzitutto fermata nell’espressione di convinzioni ideologiche presentate come verità medico-scientifiche, più e prima del Tribunale, anzitutto dall’Ordine. A oggi, in attesa di un primo giudizio penale la cui udienza è rinviata a settembre, si annovera una petizione su change.org che conta più di 27mila aderenti che ne hanno chiesto la radiazione dall’Ordine dei medici, mentre suo favore si sono schierati molti, tra cui Carlo Giovanardi, Luigi Amicone e Mario Adinolfi.

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