Corsi di lingua, ma anche lezioni su usi e costumi del Paese, tre pasti, l’assicurazione sanitaria e perfezionamenti professionali. Con gli stessi 35 euro al giorno che l’Italia spende per garantire a un migrante nella maggior parte dei casi giusto vitto e alloggio, in Germania viene preparata la strada per formare un futuro lavoratore. Infatti, mentre i nostri richiedenti asilo, una volta ottenuto lo status di rifugiati, finiscono in strada o in occupazione, dalle parti di Berlino vengono introdotti nel programma del governo contro la disoccupazione, hanno diritto a 400 euro al mese e a vivere in una struttura di accoglienza. A una condizione: devono formarsi per il lavoro e cercare un impiego. Per trasformarsi da costo a utile, secondo il principio per cui “un migrante giovane e qualificato è un dividendo per il Paese”, come spiega Bernd Raffelhüschen, professore di economia all’università di Friburgo.

Dal Viminale Matteo Salvini ha promesso di tagliare i famigerati 35 euro al giorno, in media, che lo Stato non dà agli stranieri se non in minima parte (2,50 di pocket money) ma agli italiani che si occupano di assisterli. Ridurre i costi fino a 20 euro a suon di “la pacchia è finita.

Ma la Germania non spende meno dell’Italia: il governo tedesco parla di 32 euro al giorno, l’Istituto statistico e l’IW di Colonia di poco più di 35 euro. Inoltre, da questi dati rimangono fuori le spese per l’integrazione economica, come i corsi di perfezionamento professionale. La differenza è il modo in cui questi soldi vengono spesi. Alla garanzia di un alloggio, si aggiungono i costi per il cibo, l’assistenza, i corsi di lingua e i cosiddetti “pocket-money”, 135 euro mensili che il richiedente asilo può spendere liberamente.
(Qui l’articolo di Alessandro Ricci che racconta la storia di un richiedente asilo in Germania)

Quello che cercano di imitare le strutture coinvolte nel circuito Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati), dove agli ospiti stranieri si offrono anche corsi di italiano, mediatori culturali, l’assistenza psicologica e legale, a volte formazione professionale, stage e tirocini. Gli analisti sostengono che per garantire un servizio adeguato, il corrispettivo per ogni migrante – che passa dai Comuni che ospitano le strutture – dovrebbe essere intorno ai 40 euro, altrimenti non sarà di qualità. Il problema è che l’80% dei 170mila richiedenti asilo e rifugiati italiani non è inserito nel circuito Sprar, ma vive nei Centri di accoglienza straordinario (Cas), dove invece ci sono meno probabilità statistiche di ricevere formazione e le diarie sono intorno ai 30 euro.
(Qui l’articolo di Lorenzo Bagnoli sul sistema di accoglienza italiano)

Cas che, da Benevento a Cosenza, sono finiti al centro di varie indagini per truffa: soldi pubblici ricevuti per gestire i migranti che in Calabria venivano indirizzati, secondo la ricostruzione della Guardia di finanza, a una “holding di fatto” tramite un giro di false fatturazione, mentre in Campania cinque persone sono accusate di aver creato un “sistema criminale” capace di lucrare sul sovraffollamento dei centri. L’ultimo caso è invece quello di Latina, dove sono stati arrestati sei gestori di vari Cas della provincia. Dalle carte dell’inchiesta della Procura emerge come i gestori acquistavano alimenti prossimi alla scadenza “a prezzo di costo” e poi, è l’accusa dei magistrati, lo somministravano agli ospiti dei loro centri quando non erano più commestibili. Così riuscivano a spendere “un euro e 66 a testa, pranzo e cena” per ogni richiedente asilo e progettavano di fare “un milione” e poi comprarsi “la casa in Grecia“, come dice intercettato uno dei gestori. Il tutto guadagnando soldi sulla pelle dei richiedenti asilo.

Ma la differenza tra la Germania e l’Italia diventa ancor più marcata quando, da richiedente asilo, lo straniero diventa rifugiato. Chi ottiene asilo politico mentre si trova in un Cas, secondo un’interpretazione della legge dovrebbe rientrare negli Sprar per almeno sei mesi, ma nella maggior parte dei casi esce subito dal sistema d’accoglienza. Risultato? Chi ha diritto a restare, si ritrova a vivere per strada, diventa schiavo dei campi del Sud Italia o dei cantieri edili. Vive in baraccopoli o occupazioni delle grandi città. Nuovi poveri, nuovi emarginati.
(Qui l’articolo di Lorenzo Bagnoli sul sistema di accoglienza italiano)

Mentre un rifugiato tedesco, una volta ottenuto asilo politico, viene di fatto equiparato a un normale cittadino, con stessi diritti e doveri. Significa che può entrare nel programma del governo contro la disoccupazione, il cosiddetto Hartz IV. Ma anche che ha ancora la possibilità di vivere in una struttura di accoglienza finché non trova una casa e un lavoro. Proprio il lavoro è al centro di tutto, perché il rifugiato riceve anche 400 euro al mese, ma solo se sta continuando la sua formazione professionale ed è alla ricerca di un impiego, come d’altronde un qualsiasi altro tedesco.
(Qui l’articolo di Alessandro Ricci che racconta la storia di un richiedente asilo in Germania)

“La migrazione offre un utile nel caso in cui ci sia una persona giovane e qualificata”, spiega l’economista Raffelhüschen. Ma, avverte, “immaginiamo che non siano queste le condizioni e prendiamo individui poco qualificati, maschi e che non parlano la lingua, vediamo che il costo medio di un migrante nel ciclo di vita è, ottimisticamente parlando, di 300mila euro a persona”. Il problema è che “il sistema di accoglienza italiano non è concepito per creare integrazione sociale”, sostiene Gianfranco Schiavone, presidente del consorzio Ics di Trieste e vicepresidente di Asgi, Associazione studi giuridici per l’immigrazione. Per funzionare meglio e quindi sprecare meno risorse, come dice Raffelhüschen, il sistema di accoglienza dovrebbe spendere di più in integrazione, secondo il numero due di Asgi. Non di meno.

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