Nelle ore in cui in Italia sta per prendere forma il governo giallo-verde, con il suo tratto post-ideologico e l’orgoglioso euro-scetticismo, in Spagna ha preso corpo un esecutivo rosso scarlatto di “sinistra-sinistra” (socialisti e Podemos), fieramente ideologizzato e convintamente europeista. Non una semplice distinzione cromatica, come si vede.

È Pedro Sánchez, il segretario del partito socialista (Psoe), l’artefice dell’inatteso ribaltone che – appena approvata la mozione di sfiducia – ha portato alla destituzione del premier Mariano Rajoy. Una svolta non di poco conto, il leader conservatore lascia La Moncloa dopo oltre otto anni di potere ininterrotto, il primo ministro più longevo dai tempi del regime di Franco.   

Il candidato socialista ha saputo giocare le sue carte, assestando al momento giusto una mozione di sfiducia nei confronti di un governo stanco, logorato dal caso Gürtel – la trama spagnola che ha visto intrecciare la corruzione con i traffici di influenze, le malversazioni con i finanziamenti illeciti al Partido popular – e dalla questione catalana. La Spagna oggi è un Paese rotto, disgregato da contrapposizioni regionali che alimentano livori etnici, discriminazioni linguistiche, minacce di boicottaggi commerciali intestini. Di fronte a tali sconquassi Rajoy è rimasto fermo, mai ha dato l’idea di porre una seria questione morale all’interno di un partito epicentro di molteplici scandali, mai ha aperto le porte del dialogo con gli indipendentisti per avviare una stagione di possibili riforme anche costituzionali. 

Con queste premesse non era difficile immaginare che tutte le formazioni autonomiste si schierassero senza indugio con il leader socialista; lo hanno fatto da subito i partiti catalani di Esquerra Republicana, il PDeCAT dell’ex president Puigdemont e la sinistra radicale basca di Euskal Herria Bildu (lontana erede dell’ala politica dell’Eta). Quando ieri i cinque deputati del Pnv, i nazionalisti baschi moderati, hanno dichiarato di appoggiare la mozione di Sánchez è apparso chiaro che potessero superare i 176 voti, soglia fissata per ottenere la maggioranza assoluta e dare corpo ad un esecutivo molto eterogeneo (per questo battezzato coalizione Frankenstein).

In questi giorni di acceso dibattito parlamentare è emerso palese il diverso approccio sulla questione delle autonomie regionali, con Rajoy a difendere l’operato del governo fondato sul centralismo dello Stato e il leader socialista-sostenitore comunque dell’intervento di Madrid nella destituzione della Generalitat dopo il proclama separatista – a rilanciare il tema della nazione plurale e solidale.

Sarà questa la principale sfida che attende il Paese: rimanere unito e riappacificato rilanciando riforme che garantiscano maggiori concessioni, soprattutto in materia fiscale ed economica, alle autonomie regionali oppure ancora spaccato perché ripiegato su posizioni intransigenti.    

Pedro Sánchez non sarà una meteora, nel corso della discussione parlamentare ha lasciato intendere che lavorerà anche per la finanziaria del 2019, fissando già le linee per interventi volti a restituire indipendenza alla televisione pubblica, a rilanciare l’universalità della sanità pubblica e la green economy.

Le elezioni anticipate potrebbero non essere vicine, con il disappunto dei centristi di Ciudadanos di Albert Rivera, formazione in grande ascesa che i sondaggisti danno al 30%, mentre i tre partiti, Psoe, Podemos e Popolari sarebbero appaiati al 20% dei consensi. Vedremo nelle prossime settimane se la coalizione Frankenstein durerà, se riuscirà a tendere ponti, come ha promesso.

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