Il caffè è come il vino. Ha una grande tradizione italiana (espresso), apprezzata in tutto il mondo. Può essere di grande qualità, come di pessima, cioè si presta a trucchetti commerciali non sempre facili da scoprire. La materia prima è fondamentale, ma la sua lavorazione non è cosa da improvvisarsi. Può dare discreti o ottimi profitti e questo dipende dalla serietà dei produttori. Inoltre il caffè – al pari del vino – è diventato un bene di consumo universale, un affare per aziende e multinazionali, che non pongono limiti ai loro mercati e portano i propri marchi in tutto il mondo. Per questo Nestlè (Nespresso) ha fatto un accordo con Starbucks. Per questo il gruppo americano (con qualche problema) incassa circa 7,15 miliardi di dollari per la cessione del diritto di vendita nei supermercati, nei ristoranti e nelle attività di catering dei suoi prodotti a base di caffè. Immediatamente la questione non riguarda il nostro caffè, quello che vogliamo continuare a bere, ma è verosimilmente l’inizio di un percorso che qualche turbamento alle nostre abitudini potrebbe darlo.

Il caffè all’italiana è fondamentalmente due cose: la moka (o la caffettiera napoletana) a casa, e l’espresso al bar. In ogni caso – che si consumi tra le mura domestiche o fuori – il nostro caffè ha caratteristiche ben precise, non può essere un brodo qualsiasi e noi italiani che pensiamo di conoscere il caffè, facilmente distinguiamo il buono dal cattivo e sappiamo bene quali nefandezze ci tocca bere, ancor oggi, fuori dal nostro paese. Ma c’è una battaglia in corso tra aziende produttrici di caffè e questo scontro passa attraverso l’imposizione di gusti – come per il vino – che poco hanno a che fare con le nostre tradizionali abitudini.

Tutto incominciò con le capsule. Queste sono delle dosi singole di caffè, mescolato variamente con altre sostanze, racchiuso in involucri spesso non riciclabili, di facile preparazione, vendute al costo di non meno di 70 euro per chilo di prodotto. A seguito dell’introduzione di queste capsule, il mercato del caffè per i consumi privati (e non solo) si è modificato radicalmente. Mentre il costo medio di una tazzina di caffè realizzato con la tradizionale moka restava pari a € 0,12, quello realizzato con le capsule si posizionava a € 0,40, superando sia la macchina a cialde e polvere (€ 0,18), sia quello realizzato con la macchina automatica (macina il caffè in grani), pari a € 0,08. È stato calcolato che il costo medio del caffè in un anno (quattro caffè al giorno compresa la macchina) è pari a una media di € 194 con la moka, contro gli € 693 con le capsule. Il vantaggio economico per i produttori di capsule è evidente.

Ma il prezzo non è il problema principale, il problema è la svolta del gusto, legata all’impossibilità di conoscere dettagliatamente il contenuto. Il caffè in grani ad esempio è certamente solo caffè, valutabile anche alla vista. Al contrario, le capsule sono tanto belle e colorate al di fuori quanto imperscrutabili all’interno. Con le capsule beviamo ciò che non conosciamo e ci fidiamo di un prodotto, che complessivamente si sta allontanando sempre più dal caffè vero e proprio, per divenire una bevanda dal gusto e dall’apparenza completamente autonomi. Conta il brand, non ciò che beviamo. Per stare nella metafora, è come se invece di vino fatto al 100% di uva bevessimo (come purtroppo sempre più spesso beviamo) un prodotto addizionato di sostanze che ne modificano radicalmente il sapore, l’odore il colore, solo per il marchio.

La forma, come spesso succede, non è neutra. Una volta diffusa, la capsula diventa un legame forte, nel senso che non offre vie d’uscita al consumatore. La capsula condiziona i gusti e le preferenze del caffè. La scelta della moka o del caffè espresso ottenuto da macinazione al contrario è neutra, anzi segue le preferenze del pubblico (che per il momento continua a preferire il caffè tradizionale). Aggiungiamo che l’Italia sul piano produttivo è il paese delle piccole aziende; infatti oggi il mercato del caffè, il caffè che beviamo, è il risultato della presenza di oltre 700 piccolissime torrefazioni e di poche grandi aziende (Lavazza, Illy, Hausbrandt, Segafredo, Kimbo etc.), dove la più grande (Lavazza) è dieci volte più piccola di Nestlè, che sommata a Starbucks fa il doppio di forza d’urto. Se per effetto delle pressioni dei brand internazionali cambiassero i gusti, allora muterà anche la struttura produttiva del caffè italiano.

L’alleanza tra Nestlè e Starbucks è certamente un altro passo verso il controllo globale del mercato del caffè, dove, alla fine, non è detto che il vincitore potrà essere il tradizionale espresso all’italiana.

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