Dal movimento #MeToo contro le molestie a #PayMeToo per la parità di salario. Un gruppo di deputate del parlamento britannico, guidato dalla laburista Stella Creasy, ha lanciato una campagna per spingere le donne a chiedere una paga uguale a quella dei colleghi maschi. Soltanto due giorni fa è scaduto il termine concesso da una nuova legge alle aziende inglesi con più di 250 dipendenti per rendere pubblici i dati sulla differenza di salario fra i propri dipendenti maschi e le donne.

“Se siamo serie nell’affrontare la disuguaglianza tra gli stipendi, allora dobbiamo fare di più che mostrare dei dati, dobbiamo far vedere che guardiamo a cosa succede dopo”, ha dichiarato Creasy al Guardian. Le deputate che hanno lanciato #PayMeToo hanno invitato le donne a compilare e a condividere un questionario anonimo sulla loro condizione lavorativa. L’obiettivo è quello di contribuire al dibattito in parlamento e aiutare la politica a trovare una soluzione. “Le donne ci rivelano che ancora viene detto loro di non fare domande difficili su questo tema per timore di avere ripercussioni sulla carriera e noi vogliamo essere chiare: cercare di mettere a tacere le dipendenti non è la risposta giusta”, ha aggiunto la deputata.

In Regno Unito la legge che obbliga le aziende pubbliche e private a pubblicare i dati sul gender pay gap è in vigore già dall’anno scorso, ma le società avevano tempo fino al 2 aprile 2018 per mettersi in regola. I primi effetti di questo provvedimento sono arrivati a gennaio, quando l’amministratore delegato della compagnia lowcost Easyjet, Johan Lundgren, è stato costretto a decurtarsi lo stipendio di quasi 40mila sterline dopo aspre polemiche. Perché? Il suo predecessore, una donna, veniva pagata di meno.

Anche l’Onu ha acceso un faro sulla disparità di salario: nel mondo le donne guadagnano in media il 23 per cento in meno degli uomini, senza distinzioni geografiche, di età o qualifiche. È il “più grande furto della storia”, ha dichiarato la consigliera economica del Programma di sviluppo delle Nazioni unite, Anuradha Seth. Alla base ci sono i pregiudizi di sempre, che hanno spesso relegato le donne a una posizione subordinata rispetto agli uomini. Anche sul posto di lavoro. Un tema raccontato anche dalle giornaliste de Il Fatto Quotidiano sull’ultimo numero del mensile Fq MillenniuM.

E in Italia? Secondo il “Global gender gap index 2017” del World Economic Forum, la Penisola è all’82esimo posto su 144 Paesi in fatto di uguaglianza di genere. Un dato in peggioramento rispetto agli anni passati, anche per colpa del tasso di occupazione femminile che è tra i più bassi d’Europa. La campagna #PayMeToo cerca ora di dare eco mediatica al gender pay gap. E immediato è stato il commento del segretario reggente del Partito democratico, Maurizio Martina: “Impegnarsi contro le disuguaglianze, a partire da quelle di genere. Troppe donne ancora guadagnano meno degli uomini. Troppo spesso hanno più difficoltà a trovare un lavoro o a conservarlo dopo la maternità. L’impegno delle parlamentari inglesi ci riguarda e siamo pronti a fare ancora la nostra parte come Pd così come fatto quando abbiamo introdotto la tracciabilità degli stipendi, operativa dal prossimo 1 luglio”. Tracciabilità introdotta però per evitare i pagamenti extra busta e senza nessun collegamento con la questione del gender pay gap.

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