Nella storia italiana dei rapporti tra Stato e Chiesa le ultime elezioni (24/25 febbraio 2013) non contano. Benedetto XVI aveva appena annunciato le sue dimissioni, in Vaticano si pensava unicamente al conclave, i giochi politici italiani apparivano lontani. Ma in questo appuntamento elettorale – complice anche lo sbracciarsi di Salvini con rosario e vangelo – la svolta si presenta con assoluta chiarezza. Da quando è stata fondata la Repubblica queste sono le prime elezioni in cui il Vaticano non interviene più per indicare il partito preferito o suggerire un convergere di voti sul leader e l’alleanza, che meglio possano garantire la salvaguardia di “principi non negoziabili”. Finiti i tempi in cui la Segreteria di Stato sdoganava Gianfranco Fini o la Conferenza episcopale italiana faceva capire che Silvio Berlusconi, pur non senza peccato, tutto sommato dava qualcosa alla Chiesa. Finiti i tempi in cui i partiti a destra o a sinistra scrutavano ansiosamente il cielo sopra il Cupolone per cogliere sfumature di presagi a favore o contro o benevolmente neutrali.

Papa Bergoglio ha spezzato il cordone ombelicale che dai tempi di Pio XII e dell’assemblea costituente legava la Santa Sede al mondo politico italiano. Lo ha fatto da subito, a pochi mesi dalla sua elezione. Ricevendo i vescovi italiani in San Pietro il 23 maggio del 2013, sottolineò in presenza del cardinale Bagnasco, allora presidente della Cei, che il “dialogo con le istituzioni culturali, sociali e politiche è cosa vostra”. Archiviata da quel momento la supervisione della Segreteria di Stato vaticana sui rapporti con i partiti italiani. Simbolicamente il pontefice argentino ha evidenziato questa svolta con la scelta del nuovo nunzio presso il Quirinale nel settembre scorso. “Ambasciatore” vaticano presso lo Stato italiano non è più, com’era sempre stato negli ultimi ottantanove anni dopo la Conciliazione, un nostro connazionale, ma uno svizzero: monsignor Emil Paul Tscherrig che Bergoglio aveva conosciuto nel 2012 a Buenos Aires in qualità di nunzio in Argentina.

E’ la fine dell’ “eccezione italiana”. Ci voleva un papa italo-argentino perché si arrivasse a quel “Tevere largo”, che le forze laiche italiane sognavano da quando fu scritta la Costituzione. Comunque l’esaurirsi dell’interventismo vaticano avviene quando ormai da decenni la società italiana si è ampiamente secolarizzata. Non esiste più un partito cattolico, non esistono più formazioni politiche realmente cattoliche (chi rispolvera lo scudo crociato o si richiama a lontane idealità cerca sostanzialmente di appropriarsi di qualche brandello di voto post-democristiano).
Il voto dei credenti cattolici è diventato molecolare. Se ne ritrovano da un estremo all’altro. Da CasaPound a Liberi e Uguali. In questa fase, ha notato Camillo Ruini uno dei cardinali più politici della nostra storia, i “cattolici rischiano di essere sempre meno rilevanti, nonostante il loro grande contributo alla vita sociale”. Non è un’osservazione sbagliata se si guarda all’esperienza del Novecento.

Paradossalmente la trovata di Matteo Salvini di esibire il rosario come arma elettorale sottolinea platealmente il tramonto del cattolicesimo politico. Perché Salvini non ha mai voluto presentarsi come un cattolico che fa politica per “spirito di servizio”. Né la Lega si è mai proposta di tradurre in azione parlamentare la dottrina sociale della Chiesa. Nelle mani di Salvini, rosario e vangelo sono uno strumento scenografico per una battaglia identitaria: per contrapporre gli “italiani” alla pretesa invasione degli immigrati, per erigere una barriera tra Occidente e Islam. (Chiudendo gli occhi sui grandi e piccoli imprenditori leghisti, che usano forza lavoro immigrata e musulmana, a volte con salari legali, più volentieri in nero).

Eppure sarebbe sbagliato ritenere che la Chiesa volti le spalle alla politica. Al contrario, l’impegno politico è incoraggiato dal Papa e dalle conferenze episcopali. Come responsabilità imprescindibile per il bene comune della società. Tutta la predicazione di Francesco va in questo senso. Solo che il destinatario è il singolo cristiano nella sua dimensione individuale o in un contesto associativo (confessionale o laico poco importa) da lui scelto. E’ il singolo, che deve assumersi la sua responsabilità, rispondendo all’insegnamento di Cristo – per dirla in termini teologici.

L’Avvenire, il giornale dei vescovi, indica in questo senso quotidianamente i campi in cui i credenti sono chiamati ad agire. Sfogliando le sue pagine si legge di povertà in aumento in Italia, di carenze di nidi, biblioteche, palestre nel Sud. Automazione e trasformazione del lavoro. Influenze dei clan mafiosi sul voto. Xenofobia e antisemitismo crescenti in Europa orientale. Desolazione della Terra dei Fuochi. Disuguaglianze come freno allo sviluppo del Paese. Si legge dei nove milioni di donne sottoposte in Italia a molestie e ricatti sessuali e dell’impulso che la speculazione finanziaria imprime alla crescita del debito pubblico. Tanti temi su cui prendere posizione e su cui leader e leaderini praticamente tacciono nei talk-show. “C’è un’Italia da ricostruire, ricucire, pacificare”, afferma il presidente della Cei cardinale Bassetti. Ad ascoltare i comizietti in tv sembra invece che ci sia un Paese da imbonire.

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