In Sicilia ha votato il 47%, una chiara minoranza. Questo è il primo rilevante dato su cui riflettere. Colin Crouch preconizzava in Postdemocrazia l’avvento di minoranze al comando senza consenso e José Saramago aveva descritto nel capolavoro Saggio sulla lucidità la rivolta silenziosa di un popolo astensionista che metteva alle corde il potere. Ora in epoca di seconda globalizzazione, l’astensionismo dei siciliani si somma a quello nella stessa giornata degli ostiensi e dei diversi popoli elettorali che quando possono dimostrare la propria ostile estraneità alle diverse offerte del mercato elettorale, soprattutto locale, lo fanno senza esitazioni, restando a casa. Così la rappresentanza dell’elettorato è ridotta a meno della metà.

Se valessero in questo caso le semplici regole democratiche, le elezioni sarebbero nulle e occorrerebbe tornare a votare con proposte più convincenti, invece tant’è, alla fine chi arriva primo vince e governa anche se rappresenta meno del 15% del corpo elettorale. Ha vinto la destra di Nello Musumeci che ha rimesso insieme il suo cartello elettorale tradizionalmente forte, aiutato da impresentabili candidati occulti e noti, come registrano le cronache; i Cinquestelle hanno avuto un notevole successo, essendo da soli il primo partito a notevole distanza dagli altri ma sono arrivati secondi; il Partito democratico esce con le ossa rotte, terzo a distanza con la sua coalizione che non raggiunge il venti per cento; infine la lista di sinistra, guidata da Claudio Fava che prende il sei per cento, un risultato troppo modesto per sentirsi soddisfatti.

La sconfitta del Pd, ed il mancato successo della sinistra alternativa, pongono allo schieramento progressista e alle sinistre, in modo stringente il dilemma di come andare alle ormai imminenti elezioni. Matteo Renzi dice che “non molla” l’osso della leadership del partito (contenti loro) e questo è al contrario, almeno finora, condicio sine qua non per ogni eventuale ripresa almeno di un dialogo con la sinistra che nel frattempo va formandosi come lista di “coalizione civica”.

Cosa capitalizzare dalle elezioni in Sicilia come dalle precedenti tornate elettorali? Che se non avviene un profondo processo di cambiamento, di indirizzi e pratiche politiche, nonché di leadership, non ci sarà alcuna possibilità di una ripresa di consensi. L’elettorato di sinistra vorrebbe fortemente un progetto unitario, ma se non gli si offre una soluzione coerente e adeguata, la rifiuta e si rifugia nell’astensione o più frequentemente nel voto al M5S. Come si fa a innescare un processo di rinnovamento? Non è questione di giorni, occorre cambiare prospettiva, non più lavorare per raggiungere solo un numero ipotetico di eletti, bensì impegnarsi per costruire una solida organizzazione politica, che riprenda l’iniziativa diffusa nel territorio, nei luoghi di lavoro innanzitutto chiudendo la parentesi nefanda del Jobs Act, che si occupi dei problemi sociali, delle difficoltà delle persone, che riprenda un rapporto oggi assente con la cultura, nelle università e nei luoghi dove si produce cultura, cassando definitivamente l’infausta “Buona scuola”. Una sinistra che torni a fare il suo mestiere e che parli il suo linguaggio, popolare, chiaro, comprensibile e coerente, seguendo il faro illuminato della Costituzione. Una sinistra che sta nel suo campo e che non senta il bisogno del consenso di Sergio Marchionne, che non insegua i miti della destra, una sinistra che ritrovi le ragioni della sua identità, di stare dalla parte di chi ha meno e non di chi ha di più.

E’ possibile ricostruire questo tipo di sinistra? Guardando ai problemi dell’oggi, senza rigettare la propria storia e la propria origine. Una sinistra che non riparte solo dai nomi illustri che pur ci vogliono ma che costruisca l’intelaiatura per funzionare, reti di militanti, di circoli, di cellule, di associazioni e movimenti di riferimento, una sinistra organizzata in rete che mantenendo l’autonomia organizzativa di chi si associa, riconosca la libertà d’iniziativa e di rappresentanza democratica, senza imporre le pesanti burocrazie del passato, una sinistra flessibile, aperta, inclusiva, paritaria, democratica. Per costruire questa sinistra, non si può andare al voto con proposte poco convincenti, occorre anteporre ai micro-interessi individuali o di gruppo il bene comune e l’interesse generale, ragionare in modo equilibrato e aperto, dando la parola ai militanti, nelle assemblee, trovare metodi democratici e criteri condivisibili per selezionare le candidature.

Non si possono accettare proposte di personaggi usurati dalla troppa permanenza in scranni del potere, così come non si può rinunciare ad alcune personalità forti e rappresentative, occorre schierare le migliori energie, puntare su giovani qualificati, sulle donne, su chi da affidabilità ed è conosciuta o conosciuto per l’impegno e la serietà, evitare accuratamente gli immancabili opportunisti giro poltrona, fanno perdere solo entusiasmo e voti. E’ un lavoro difficile, non è assolutamente detto che riesca, considerando la frammentazione e i vizi ricorrenti di cui soffre la sinistra da lungo tempo. Però non c’è altra strada, se si vuole che quest’ingranaggio funzioni.

Infine il Pd, sia quello renziano che quello non renziano. È un partito inquinato da troppe contraddizioni, vi albergano gli Alfano, i Lupi e i Verdini, è un partito che ha abdicato al suo ruolo di forza progressista per diventare partito del potere qualunquista. Se tutto ciò non termina con una sana profonda riflessione che capovolga il senso della sua storia recente, non ci può essere alcuna alleanza e sicuramente non ci potrà essere nel breve spazio che separa dalle elezioni. Non si tratta di abiurare il concetto di centrosinistra ma di costatare che questa parola oggi ha perso ogni significato e che per poterla ricostituire occorre ripartire innanzitutto dal fatto che esiste una sinistra e che forse potrebbe un giorno tornare dialogare con un centro, ma non per esserne fagocitata. La lezione siciliana speriamo sia l’ultima di una sinistra minoritaria e di testimonianza, per tornare ad essere quel che in Italia per lungo tempo fu e che tanti vantaggi fece scaturire ai lavoratori e al paese dall’esserlo.

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